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Dispensa gestione 2

La dispensa fornisce un'introduzione all'economia e alla gestione d'impresa, spiegando il concetto di organizzazione come un insieme di persone con uno scopo comune, e definendo l'impresa come un istituto economico che produce beni e servizi per massimizzare i profitti. Viene inoltre discussa la struttura organizzativa delle aziende e le diverse forme legali che possono assumere, come società individuali, di persone, di capitali e società benefit, evidenziando le loro caratteristiche e responsabilità. Infine, si analizzano le funzioni aziendali, distinguendo tra operative e di supporto, necessarie per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.
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La dispensa fornisce un'introduzione all'economia e alla gestione d'impresa, spiegando il concetto di organizzazione come un insieme di persone con uno scopo comune, e definendo l'impresa come un istituto economico che produce beni e servizi per massimizzare i profitti. Viene inoltre discussa la struttura organizzativa delle aziende e le diverse forme legali che possono assumere, come società individuali, di persone, di capitali e società benefit, evidenziando le loro caratteristiche e responsabilità. Infine, si analizzano le funzioni aziendali, distinguendo tra operative e di supporto, necessarie per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.
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GESTIONE AZIENDALE

Autunno 2024 Dispensa #2

Introduzione all’Economia e alla Gestione d’impresa


Prima di iniziare ad addentrarci nel mondo del management – ossia, della gestione d’impresa - è
importante assimilare alcune informazioni di base che ci permettono di comprendere la struttura
dell'universo in cui il management opera. Per fare questo, in questa dispensa apprenderai in che
contesto operano i manager e il management: quello delle organizzazioni e, in particolare, delle
imprese.

Le organizzazioni

I manager lavorano nelle organizzazioni. Ma cos'è un'organizzazione? È un insieme di persone


creato appositamente per raggiungere uno scopo specifico. Un’università è un'organizzazione, così
come lo sono i dipartimenti della pubblica amministrazione, le chiese, Amazon.com, il negozio di
alimentari di quartiere, l’ospedale della tua città e le squadre di calcio della Serie A. Tutte queste entità
hanno tre caratteristiche comuni:

• Scopo (Purpose). In primo luogo, un'organizzazione ha uno scopo ben definito, che viene
tipicamente espresso attraverso gli obiettivi che l'organizzazione cerca di raggiungere.
• Persone (People). In secondo luogo, ogni organizzazione è composta da persone. Ci vogliono
persone per eseguire il lavoro necessario all'organizzazione per raggiungere i suoi obiettivi.
• Struttura (Structure). In terzo luogo, tutte le organizzazioni sviluppano una struttura apposita
all'interno della quale i membri svolgono il loro lavoro. Tale struttura può essere aperta e
flessibile, senza mansioni lavorative specifiche o con il rigoroso rispetto di accordi di lavoro
espliciti.

Dispensa 2 – Gestione Aziendale


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Ad esempio, la maggior parte dei grandi progetti di Alphabet (la società madre di Google) sono
affrontati da piccoli team di dipendenti selezionati, che si organizzano per svolgere un unico lavoro,
quanto più rapidamente possibile.
Oppure la struttura può essere più tradizionale, come quella di Procter & Gamble, con regole,
regolamenti, descrizioni del lavoro chiaramente definite, e alcuni membri identificati come "capi", che
hanno autorità sugli altri membri. Questo succede anche nell'esercito, dove c'è una gerarchia ben
definita. Nella US Air Force, ad esempio, il generale dell'aeronautica è l'ufficiale di grado più alto e il
sottotenente è l'ufficiale di grado più basso. Tra i due ci sono nove gradi ufficiali.
Molte delle organizzazioni odierne sono strutturate più come Alphabet, con accordi di lavoro
flessibili, team di lavoro fatti da dipendenti, sistemi di comunicazione aperti e alleanze con i fornitori.
In queste organizzazioni, il lavoro è definito in termini di compiti da svolgere e i giorni lavorativi non
hanno limiti di tempo poiché il lavoro può essere - ed è - svolto ovunque e in qualsiasi momento.
Tuttavia, indipendentemente dal tipo di approccio utilizzato da un'organizzazione, è necessaria una
struttura apposita, in modo che il lavoro possa essere svolto con i manager che supervisionano e
coordinano quel lavoro.

Figura 2.1 – Caratteristiche delle Organizzazioni

La definizione di impresa

Un’impresa, dunque, è un’organizzazione. Più nello specifico, nella logica economico-aziendale


un’impresa è un istituto economico, duraturo, che produce beni e servizi al fine di massimizzare i
profitti.
Per cogliere l’essenza della definizione, è opportuno descrivere il significato degli elementi che
caratterizzano l’impresa:

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• Istituto, in quanto organismo composto da sistemi coordinati e complementari di persone
(organizzazione), beni (patrimonio) ed operazioni (gestione) – cfr. Figura 1
• Economico, perché in esso vengono assunte decisioni per adattare mezzi scarsi a fini molteplici
• Duraturo, perché sopravvive oltre la vita fisica delle persone e dei beni
• Produttore di beni e servizi, perché la sua missione è quella di creare nuova utilità per la
soddisfazione dei bisogni umani
• Massimizza i profitti, perché l’impresa deve ottenere rendimenti superiori al costo del capitale
impiegato.

Figura 2.2. L’impresa come istituto.

L’organizzazione1, inteso come insieme dei meccanismi di funzionamento di una struttura, è


decisamente una delle risorse immateriali più importanti di una azienda.

L’azienda è definibile come un insieme di risorse umane, tecniche e finanziarie, coordinate ed


interagenti tra loro per cogliere le opportunità del mercato per il conseguimento di un profitto.

In tale contesto, gli elementi chiave dell’azienda sono:

• l’azienda è una realtà economica


• l’individuo è portatore di valori del mondo esterno all’interno dell’azienda
• l’azienda influenza il mondo esterno e ne viene a sua volta influenzata

Come organizzazione di individui, l’azienda si caratterizza per:

1
Il termine “organizzazione” può avere molteplici interpretazioni, a seconda di come lo si utilizza. Inizialmente è stato
utilizzato nel testo come sinonimo di “istituzione”. In questo caso lo intendiamo come l’insieme delle attività di
un’istituzione volte a far funzionare la struttura (appunto, organizzativa) per il raggiungimento di un obiettivo (es.
l’organizzazione di un’impresa/di uno studio di consulenza/ecc.).

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• tensione (implicita nell’organizzazione del lavoro)
• diversità (ognuno partecipa con un ruolo differenziato)
• complessità (la gestione delle persone è complessa)

Qualunque sia il suo obiettivo, ogni azienda deve svolgere quattro funzioni fondamentali: a) produrre
un bene o un servizio; b) distribuire e vendere il bene/servizio; c) finanziare l’attività; d) supportare le
attività dell’azienda.

Le forme legali dell’impresa

L’impresa può svolgere la sua attività adottando diverse forme legali (cfr. Figura 2.3):

1. società individuali
2. società di persone
3. società di capitali
4. società benefit

Figura 2.3. Le forme organizzative dell’impresa

1. Nelle società individuali l’unico titolare dell’attività è il singolo imprenditore che si assume il rischio
e le responsabilità che l'esercizio dell'attività economica comporta. Risponde direttamente alle
obbligazioni verso i terzi con il suo patrimonio: poiché non c'è un'autonomia patrimoniale dell'impresa,
se questa viene dichiarata fallita, anche l'imprenditore fallisce.

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L'impresa individuale rispetto alla collettiva è caratterizzata da una maggiore flessibilità e rapidità di
decisione e da minori oneri amministrativi, contabili e fiscali.

Le imprese individuali sorgono con l'inizio dell'esercizio professionale di un'attività economica


organizzata per la produzione e lo scambio di beni e di servizi.

Sono concettualmente simili all'impresa individuale, quella familiare (formata al 51% dal
capofamiglia e al 49% dai suoi familiari, con una parentela non superiore al secondo grado) e quella
coniugale (formata solo da marito e moglie).

2. Due sono i grandi sottoinsiemi in cui si raggruppano le società lucrative: le società di persone e le
società di capitali.

A distinguere le prime dalle seconde sono due elementi: il grado di autonomia patrimoniale e il
riconoscimento o meno della personalità giuridica da parte del legislatore (contratto di società è il
conferimento, da parte di due o più soggetti, di beni e servizi per l'esercizio in comune di un'attività
economica organizzata, al fine di dividerne gli utili).

Più in particolare, riguardo all'autonomia patrimoniale, le società di persone hanno un'autonomia


patrimoniale imperfetta. Ne consegue che i soci sono illimitatamente e solidalmente responsabili per
le obbligazioni della società, salvo alcune eccezioni stabilite dalla legge (socio accomandante di una
società in accomandita semplice ) o dai soci stessi (possibilità prevista unicamente nel disciplina
delle società semplici), per mezzo di un patto portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, ex
art.2267 c.c.

I creditori particolari dei soci di società semplici possono ottenere dalla società la liquidazione della
quota del socio debitore. Questa possibilità è riconosciuta pure ai creditori dei soci di società in nome
collettivo, ove la durata di questa sia stata prorogata, con diverse modalità nel caso la proroga sia stata
espressa o tacita.

Inoltre, l'ordinamento riconosce la personalità giuridica alle sole società di capitali (art 2331 c.c.). Le
società di persone sono comunque caratterizzate da soggettività giuridica, ossia costituiscono un
soggetto distinto dai soci, titolare di propri rapporti giuridici e di un proprio patrimonio.

Sono società di persone:

• la società semplice;

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• la società in nome collettivo (S.n.c.);
• la società in accomandita semplice (S.a.s.).

3. Le società di capitali sono caratterizzate da un'autonomia patrimoniale perfetta e così i soci


rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti della quota conferita, salvo il socio accomandatario di
una società in accomandita per azioni, per le obbligazioni sorte nel periodo in cui svolgeva le funzioni
di amministratore e il socio unico di S.r.l. e S.p.A., ove non abbia adempiuto agli obblighi pubblicitari e
relativi ai conferimenti in denaro connessi a tale condizione.
I creditori particolari dei soci non possono pretendere che la quota sociale del rispettivo debitore sia
liquidata dalla società.
Le società di capitali, che hanno piena personalità giuridica, si distinguono in:

• la società per azioni (S.p.A.)


• la società a responsabilità limitata (S.r.l.)
• la società in accomandita per azioni (S.a.p.a.).

Nelle società per azioni (S.p.A.) il capitale sociale è rappresentato da azioni (il capitale sociale minimo
è di 100.000 euro). Le società per azioni possono emettere varie categorie di azioni (ordinarie,
privilegiate, di godimento, senza voto, con voto limitato, di risparmio).
Altri tipi di società sono le società cooperative, caratterizzate da scopo mutualistico, e le società
consortili, definite come l'organizzazione costituita tra imprenditori dello stesso ramo o di attività
connesse per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.

4. Le società benefit, o "Benefit Corporations" (B-Corps), sono un tipo di entità legale in Italia che si
differenziano dalle tradizionali società per azioni (S.p.A.) o società a responsabilità limitata (S.r.l.)
perché hanno un'impronta sociale e ambientale più marcata. Queste società sono state introdotte in
Italia con la legge n. 208 del 2015, che ha istituito la figura giuridica della "Società Benefit" nell'ambito
del diritto societario italiano. Le società benefit sono un modo per le imprese di bilanciare i loro
obiettivi di lucro con un impegno per il bene sociale e ambientale. Un modo, cioè, per le imprese di
dimostrare il loro impegno per la responsabilità sociale e ambientale e di bilanciare gli interessi
finanziari con quelli sociali e ambientali. Questo modello è parte di una tendenza globale verso una
maggiore sostenibilità e responsabilità aziendale.

Ecco alcune caratteristiche chiave delle società benefit in Italia:

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• Missione Sociale: Una società benefit deve dichiarare una missione sociale specifica nel proprio
statuto. Questa missione deve essere centrata su obiettivi di beneficio per la società o per
l'ambiente.
• Trasparenza: Le società benefit devono essere trasparenti riguardo alle loro attività sociali e
ambientali. Devono pubblicare un rapporto annuale sul loro impatto sociale e ambientale.
• Rendimento Misto: A differenza delle società tradizionali, le società benefit possono cercare di
ottenere un "rendimento misto", cioè possono perseguire obiettivi di lucro insieme agli obiettivi
sociali e ambientali.
• Controllo: Le società benefit devono integrare nel loro modello di governance meccanismi di
controllo che assicurino il rispetto della missione sociale e ambientale.
• Responsabilità degli Amministratori: Gli amministratori di una società benefit devono tenere in
considerazione non solo gli interessi degli azionisti ma anche gli interessi degli stakeholder e
l'impatto sociale e ambientale delle loro decisioni.
• Certificazione: Le società benefit possono ottenere una certificazione da un ente terzo, come B
Lab, per dimostrare il loro impegno nei confronti degli obiettivi sociali e ambientali.
• Tassazione: In Italia, le società benefit possono beneficiare di vantaggi fiscali in base alla legge.
Ad esempio, possono avere aliquote fiscali agevolate o detrazioni fiscali per le donazioni
effettuate per scopi sociali.

La struttura organizzativa di un’azienda

Con il termine struttura si identificano comunemente il modo in cui diverse parti di un organismo sono
collegate tra loro.
Organizzare significa ordinare e strutturare il lavoro per raggiungere gli obiettivi organizzativi. La
struttura organizzativa è la disposizione formale dei lavori all'interno di un'organizzazione. Questa
struttura, che può essere visualizzata visivamente in un organigramma, serve a molti scopi (vedi
Figura 2.4).

Figura 2.4 - Scopi dell’attività di organizzazione.

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Un organigramma rappresenta in forma grafica i livelli di autorità e responsabilità tra le diverse funzioni.
Quando i manager creano o modificano la struttura, sono impegnati nella progettazione
organizzativa, un processo che coinvolge decisioni su sei elementi chiave:
• Specializzazione del lavoro (o divisione del lavoro)
• Dipartimentalizzazione
• Catena di comando:
• Portata del controllo
• Centralizzazione / Decentralizzazione
• Formalizzazione

La struttura aziendale deve essere progettata tenendo presenti i seguenti principi organizzativi:
• il principio degli obiettivi congruenti
• il principio del coordinamento
• il principio del bilanciamento tra autorità o responsabilità
• l’unità di comando
• l’ampiezza del controllo
• la delega

Le funzioni aziendali

Le funzioni aziendali sono l’insieme delle operazioni di gestione (come produrre, commercializzare,
acquistare, ecc.) con cui il sistema azienda realizza il proprio oggetto e realizza gli obiettivi della
propria gestione. Si tratta, in altri termini, di gruppi di operazioni omogenee innanzitutto dal punto di
vista tecnico, cioè come conoscenze tecniche richieste per il loro svolgimento.
Le funzioni aziendali si possono distinguere in operative e di supporto:

• funzioni operative (o caratteristiche): più direttamente rivolte al perseguimento degli obiettivi


della gestione aziendale
• funzioni ausiliarie (o di supporto): sono di supporto alle funzioni operative e concernono
l’acquisizione dei fattori produttivi e la loro gestione (finanza, personale), l’elaborazione di
informazioni sulla gestione (pianificazione strategica ed amministrazione e controllo).

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La Tavola 2.1 descrive il contenuto delle principali funzioni aziendali:

Funzione Descrizione
Pianificazione & Formula gli obiettivi di lungo termine della gestione aziendale, in maniera
controllo esplicita e precisa. Definisce le scelte strategiche adatte al
raggiungimento di tali obiettivi e individua i piani di azione necessari per
tradurre in pratica le intenzioni strategiche. Attraverso la formulazione di
piani pluriennali e il loro controllo, determina ex-ante i riflessi
economico-finanziari delle scelte compiute e analizza le ragioni di
eventuali scostamenti.
Risorse umane Attrae, seleziona e assume le risorse umane più valide. Si occupa del loro
orientamento e sviluppa un sistema di incentivi e motivazioni idonei a
mantenere i dipendenti nel tempo

Produzione La produzione ha come compiti: a) determinare i fabbisogni delle


macchine; b) definire i controlli; c) assumere le precauzioni necessarie
per assicurare il processo di trasformazione.

Acquisti Assicura gli acquisti di materie prime e componenti e il loro stoccaggio in


magazzino. Definisce i livelli di scorta di materie prime e materiali,
ottimizzando i tempi di acquisto.

Logistica Si occupa della movimentazione dei materiali, cioè del corretto flusso
degli stessi dai fornitori ai magazzini aziendali, ai reparti produttivi, al
cliente finale.
Marketing Identifica i bisogni del consumatore, definisce le caratteristiche del
prodotto da produrre e le strategie ed i sistemi più idonei per la sua
promozione e per la distribuzione e la vendita. In altri termini, il marketing
studia le esigenze presenti e future dei clienti e si attiva perché all’interno
dell’azienda tali bisogni siano recepiti e appagati con la realizzazione di
prodotti/servizi idonei.
Vendite Distribuisce e vende il prodotto secondo le direttive di massima del
marketing, assicura l’assistenza al cliente, riferisce le lamentele e i nuovi
bisogni.

Amministrazione Rileva i fatti amministrativi (acquisti, vendite, pagamenti salari, ecc.) al


fine di determinare i risultati contabili (entrate, uscite, costi, ricavi, redditi,
ecc.). Si occupa degli aspetti fiscali della gestione e dei relativi
adempimenti.

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Finanza Ricerca le fonti di finanziamento per sostenere gli investimenti aziendali
mantenendo un equilibrio finanziario, nel finanziamento da terzi e di
tesoreria, e accrescendo il valore dell’impresa.

Ricerca & sviluppo Sulla base delle richieste del marketing o in base a piani di ricerca
indipendenti, sviluppa nuove applicazioni o prodotti che
successivamente avranno un’applicazione commerciale per assicurare il
mantenimento di un vantaggio competitivo all’azienda.

Tavola 2.1. Le funzioni aziendali

Lo schema di riferimento della gestione aziendale

In definitiva, l’azienda per raggiungere gli obiettivi della propria gestione deve: a) ricercare e progettare
nuovi prodotti e processi; b) realizzarli; c) vendere i prodotti sul mercato.

La corretta gestione di tali funzioni richiede però:


• il reperimento e l’efficiente impiego dei mezzi finanziari occorrenti;
• l’acquisizione, l’addestramento, l’incentivazione e l’organizzazione del personale;
• la disponibilità di una vasta gamma di informazioni economico-finanziarie e non.

Figura 2.5. Il funzionamento di un’azienda manifatturiera

In un’impresa produttiva, l’organizzazione del processo produttivo è una variabile chiave ed è


strettamente legata alla complessità del ciclo di produzione. Nelle imprese di produzione,
l’organizzazione del processo produttivo dipende dal tipo di tecnologie utilizzate ed è fortemente
condizionata da queste.

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Le società di servizi si differenziano dalle società di produzione perché il loro prodotto è un servizio.
In genere le società di servizi devono affrontare i problemi di marketing e finanziari come tutte le altre
aziende; tuttavia devono affrontare problemi di scelta specifici quali la logistica, il prezzo del servizio,
i tempi di approntamento del servizio, la localizzazione della sede operativa (cfr. Figura 2.6).

Figura 2.6. L’identificazione del processo base per l’erogazione di un servizio

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024 Dispensa #3

La Gestione d’Impresa: il Management

Le origini del management

Il management è considerato una delle innovazioni più cruciali del ventesimo secolo, in grado di
influenzare direttamente l'istruzione e le carriere dei giovani che diventeranno “knowledge workers” e
dirigenti. Eppure, la parola "management" ha più di un secolo di storia e il concetto ad essa legato ha
visto una lunga evoluzione nel corso del tempo.

Il concetto di management, infatti, è diventato ampiamente riconosciuto e compreso dalla


popolazione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel ventesimo secolo, la società si è trasformata in
una "società della conoscenza" (i.e., knowledge society), una "società delle organizzazioni" (i.e.,
society of organizations) e una "società in rete" (i.e., networked society). Le istituzioni organizzate,
come le imprese, le scuole, i college, gli ospedali, i governi e altro ancora, hanno assunto un ruolo
significativo nell'adempimento delle principali funzioni sociali e ai dirigenti di tali istituzioni è stata
affidata la responsabilità di praticare il "management" all'interno di queste istituzioni organizzate per
garantirne un funzionamento efficace.

In particolare, la sua applicazione all'organo direttivo di un'istituzione – e, soprattutto, a un'impresa


– è di origine americana. Inizialmente, infatti, è stato Frederick Winslow Taylor, padre
dell’organizzazione scientifica del lavoro, a rendere popolare il termine "management" (sebbene
inizialmente lo avesse definito come "studio del lavoro" o "studio delle attività", oggi noto come
“ingegneria industriale”).

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Il termine "management" denota sia una funzione, sia le persone che la svolgono. Indica una
posizione sociale, l’autorità, ma anche una disciplina e un campo di studio. Anche nell'uso americano,
"management" non è un termine facile, poiché le istituzioni diverse dalle imprese non sempre parlano
di management o di manager. Le università o gli enti governativi, ad esempio, hanno degli
amministratori, così come gli ospedali. Le forze armate hanno dei comandanti. Altre istituzioni parlano
di dirigenti e così via. Eppure, tutte queste istituzioni hanno in comune la funzione di management, i
compiti manageriali e il lavoro manageriale. Tutte richiedono il management e in tutte il management
è l'organo attivo ed efficace che le governa. Senza un'istituzione, non ci sarebbe management. Ma
senza management, ci sarebbe solo un insieme di persone, una “folla” di gente, anziché un'istituzione.

L'istituzione stessa, poi, come detto prima, è un organo della società ed esiste solo per contribuire
a un risultato necessario per la società, l'economia e l'individuo. Questi “organi”, tuttavia, non sono
mai definiti da ciò che fanno, tanto meno da come lo fanno. Sono definiti dal loro contributo, ed è il
management che consente all'istituzione di contribuire.

Il management è fatto da “task” (i.e., compiti). Il management è una disciplina. Ma il management


è anche e soprattutto fatto da persone. Ogni successo del management, è il successo di un manager.
Ogni fallimento, è un fallimento di un manager. Sono le persone gestiscono risorse e attività, e sono la
visione, la dedizione e l'integrità dei manager che determinano se c'è una buona o cattiva gestione.

Il ruolo del management

Il management e i manager, quindi, rappresentano una necessità fondamentale per tutte le


istituzioni, dalle più piccole alle più grandi. Sono l'organo specifico di ogni istituzione, ciò che la tiene
insieme e la fa funzionare. Nessuna delle nostre istituzioni potrebbe funzionare senza manager.

Tuttavia, la necessità del management non sorge solo perché il lavoro è diventato troppo per essere
svolto da una sola persona, ma soprattutto perché la complessità è aumentata.

Infatti, sebbene molte imprese grandi e complesse nascano a partire da una piccola attività gestita da
un singolo individuo, dopo i primi passi la crescita inizia ad implicare più di un semplice aumento delle
dimensioni. Ad un certo punto (e molto prima che l'organizzazione diventi anche solo "di dimensioni
adeguate"), infatti, le dimensioni si trasformano in complessità.

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A questo punto, i "proprietari" non gestiscono più "la loro" impresa, anche se sono gli unici proprietari.
Sono responsabili di un'impresa e se non diventano rapidamente manager, cesseranno presto di
essere "proprietari" e verranno sostituiti, o l'azienda fallirà e scomparirà.
È proprio quando l’impresa cresce in complessità che diventa un'organizzazione e, per la sua
sopravvivenza, richiede una struttura diversa, principi diversi, comportamenti diversi e del lavoro
diverso. Richiede la presenza di manager e del management.

Il passaggio da un'impresa che l'imprenditore proprietario può gestire con "aiutanti" a un'impresa
che richiede management è un cambiamento radicale. Richiede l'applicazione di concetti di base,
principi di base e una visione unica alla gestione dell’azienda.
Si può paragonare i due tipi di aziende (quella piccola e quella più grande) a due diversi tipi di organismi:
l'insetto, che è tenuto insieme da una pelle dura e resistente, e l'animale vertebrato, che ha uno
scheletro. Gli animali terrestri sostenuti da una pelle dura non possono crescere oltre pochi centimetri
di dimensione. Per essere più grandi, gli animali devono avere uno scheletro. Tuttavia, lo scheletro non
si è evoluto dalla pelle dura dell'insetto; è un organo diverso con antecedenti diversi. Allo stesso modo,
il management diventa necessario quando un'organizzazione raggiunge una certa dimensione e
complessità.

Ma il management, mentre sostituisce la struttura "a pelle dura" del proprietario-imprenditore, non ne
è il successore. È, piuttosto, la sua sostituzione.

Quando un'azienda raggiunge lo stadio in cui deve passare dalla "pelle dura" allo "scheletro"? C’è
chi afferma che la linea si trovi da qualche parte tra 300 e 1.000 dipendenti in termini di dimensioni,
ma in realtà non è propriamente così. La vera bussola in questo senso è data dal livello di complessità,
ed è l’aumento di complessità a determinare la necessità del management.
Quando una varietà di compiti deve essere eseguita in cooperazione, sincronizzazione e
comunicazione, un'organizzazione ha bisogno di manager e di una struttura di management. Un
esempio potrebbe essere un piccolo laboratorio di ricerca in cui venti o venticinque scienziati
provenienti da diverse discipline lavorano insieme. Senza management, le cose sfuggono al controllo.
I piani non si traducono in azione o, peggio, diverse parti dei piani iniziano a funzionare a diverse
velocità, in momenti diversi e con obiettivi e scopi diversi. Ottenere il favore del "capo" diventa più
importante delle prestazioni. A questo punto, il prodotto può essere eccellente, le persone capaci e
dedite. Il capo può essere - e spesso lo è - una persona di grande abilità e potere personale. Ma

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l'azienda inizierà a stagnare e presto andrà in declino a meno che, dalla struttura "a pelle dura", non si
passi alla "struttura a scheletro", fatta di manager e di management.

Cos’è il management?

Il management, traducibile con la parola “gestione”, è un formale processo che si svolge all’interno
di organizzazioni per gestire e indirizzare risorse al fine di raggiungere obiettivi prefissati.

Mullins (1996) lo vede come un processo che:

• si sviluppa in organizzazioni strutturate guidate da regole predefinite;


• è orientato al raggiungimento di obiettivi;
• è guidato dallo sforzo di più persone;
• usa sistemi e procedure.

In termini generali, la responsabilità primaria di un manager è la performance aziendale, e la finalità


del management è quella di assicurare il miglior utilizzo di risorse, incluse persone (risorse umane ),
denari (risorse finanziarie) e informazioni, per raggiungere obiettivi aziendali di breve e lungo periodo.

Chi guida il processo di management deve così essere chiaro su principi e obiettivi, conoscere le
risorse e il loro valore e capire le performance attese.

Per Daft (2006) il management può essere definito come il processo di pianificazione, organizzazione,
gestione e controllo delle risorse per raggiungere obiettivi organizzativi specifici. (cfr. Figura 1).

Figura 3.1. Il processo di management

Ogni manager, quindi deve occuparsi di più aree funzionali ed eseguire diverse attività. Tali aree
includono la pianificazione, l’organizzazione, la gestione e il controllo. L’elenco non è tuttavia esaustivo
perché l’azienda si evolve continuamente nel tempo.

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Box: Cosa rende un manager tale?

La definizione tradizionale di manager come "responsabile del lavoro degli altri" ha dei limiti. Il
lavoro di un manager coinvolge pianificazione, organizzazione, integrazione, misurazione e sviluppo
delle persone. Eppure, anche i professionisti possono eseguire tali compiti e influenzare lo sviluppo
delle persone.

La definizione tradizionale del manager, inoltre, si concentra sull'"integrazione verso il basso", ossia
sull'integrazione del lavoro dei subordinati. Ma anche per i manager che hanno dei subordinati, le
relazioni "laterali" con persone su cui non hanno autorità di supervisione sono di solito almeno
altrettanto importanti nel lavoro e di solito più importanti in termini di decisioni e informazioni. Il
responsabile delle vendite del distretto deve lavorare a stretto contatto con l'operatore di
pianificazione delle operazioni, l'analista delle vendite e il controller dei costi - e viceversa, questi
devono lavorare a stretto contatto con il responsabile delle vendite del distretto.

La maggior parte delle decisioni quotidiane che queste persone devono prendere sono decisioni
che influenzano i loro "pari" piuttosto che i loro subordinati. L'integrazione, in altre parole, è
importante perché le persone lavorano in organizzazioni e con altre persone, piuttosto che avere
subordinati. I supervisori di prima linea gestiscono le persone ma non sono sempre manager
tradizionali. Devono portare risultati secondo gli obiettivi stabiliti da altri.

La distinzione, quindi, dovrebbe basarsi sulla responsabilità per il contributo, non solo sul potere. Il
termine "gruppo di management" o “management team” può identificare tutte le persone che hanno
responsabilità di tipo esecutivo per il contributo. Ci sono diverse posizioni all'interno del
management team, alcune con responsabilità tradizionali per il lavoro degli altri e altre senza.

L'essenza del lavoro del supervisore di prima linea in fabbrica o in ufficio - il supervisore sulla linea
di assemblaggio o il supervisore della sala di elaborazione delle politiche in un'azienda di
assicurazioni - è infatti la gestione delle persone. Ma poi, il supervisore di prima linea è solo
marginalmente un "manager", motivo per cui la supervisione di prima linea presenta così tanti
"problemi". I supervisori di prima linea, che siano in fabbrica o in ufficio, non sono generalmente
tenuti a pianificare e organizzare, o a prendersi molta responsabilità per il loro contributo e risultati.
Quindi non sono manager. Devono consegnare secondo gli obiettivi loro stabiliti da altri. Nella tipica
fabbrica di produzione di massa, questo è tutto ciò che il supervisore può o dovrebbe fare.

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Sembra quindi appropriato sottolineare che il primo criterio per identificare i manager, ossia le
persone all'interno di un'organizzazione che hanno responsabilità gestionali, non è il comando sulle
altre persone. È la responsabilità per il contributo. La funzione, quindi, non il potere, dovrebbe
essere il criterio distintivo.

Le attività principali che accompagnano il processo di management sono:

• la pianificazione (planning): è la funzione riferita alla definizione degli obiettivi futuri dell’azienda,
in termini di performance, e alla decisione su quali risorse utilizzare e sulle loro modalità di
utilizzo;
• l’organizzazione (organizing): riguarda l’assegnazione dei compiti, il raggruppamento dei compiti
per aree/dipartimenti, e l’allocazione delle risorse alle diverse aree;
• la gestione (leading): riguarda l’utilizzo della persuasione/influenza per motivare i dipendenti nel
raggiungere gli obiettivi aziendali;
• il controllo (controlling): riguarda la verifica delle attività aziendali in modo da tenere l’azienda
sempre allineata agli obiettivi prefissati e apportare le correzioni quando e dove necessario.

A ogni attività sono associati specifici compiti così come indicato nella Tavola 3.1 :

Attività Obiettivi
Pianificazione • Definire obiettivi aziendali e determinare i modi per raggiungerli
• Definire set di azioni strategiche e operative
• I piani organizzativi devono cambiare ed evolversi nel tempo (visione
dinamica)
• Gli obiettivi devono essere di breve e di lungo periodo
Organizzazione • Mettere i piani in atto; determinare quali lavori sono necessari e chi è
responsabile dell’attività
• Definire l’organigramma aziendale
• Descrivere le attività necessarie e definire le qualifiche professionali
• Definire le attività di staff
Gestione • “Azione” è parte del processo di management
• Saper delegare: assegnare responsabilità e obiettivi ai dipendenti
• Cogliere e gestire i cambiamenti in corso
• Gestire conflitti, problemi, difficoltà di comunicazione; stimolare la
creatività e motivare i collaboratori
Controllo • Misurare e assicurare l’esecuzione degli obiettivi aziendali
• Verificare il rispetto dei compiti e obiettivi assegnati
• Implementare sistemi di reporting, definire misure di performance,
fare comparazioni rispetto agli standard, sviluppare sistemi premianti

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Tavola 3.1. Le quattro attività principali del management.

Box: Il management come sistema

C'è un'intuizione fondamentale alla base di tutta la scienza del management. È che l'impresa
commerciale è un sistema di prim'ordine: un sistema le cui parti sono esseri umani che
contribuiscono volontariamente, con la loro conoscenza, abilità e dedizione, a una joint venture.
Una cosa caratterizza tutti i “sistemi” genuini e di successo, siano essi meccanici (come il controllo
di un missile), biologici (come un albero), o sociali (come l'impresa commerciale): è
l'interdipendenza.
L'intero sistema non migliora necessariamente se una particolare funzione o parte viene migliorata
o resa più efficiente. In effetti, il sistema potrebbe essere danneggiato o addirittura distrutto.
In alcuni casi il modo migliore per rafforzare il sistema può essere quello di indebolire una parte, per
renderla meno precisa o meno efficiente. Perché ciò che conta in qualsiasi sistema è la prestazione
del tutto.
Questo è il risultato della crescita e dell'equilibrio dinamico, del miglioramento continuo e
dell'integrazione piuttosto che della mera efficienza tecnica.

Figura 3.2. Il management come


sistema.

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Classificazione dei manager
Come possono essere classificati i manager nelle organizzazioni? Nelle organizzazioni
tradizionalmente strutturate (spesso raffigurate come una piramide perché ai livelli organizzativi
inferiori vi sono più dipendenti rispetto ai livelli organizzativi superiori), i manager possono essere
classificati come frontline, middle o top manager. (Cfr. Figura 3.3) Al livello più basso di gestione, i
frontline manager gestiscono il lavoro dei dipendenti non manageriali che in genere sono coinvolti
nella produzione o nell’erogazione di servizi. Questi manager hanno in genere titoli come supervisor,
responsabile di turno, direttore di distretto, capo dipartimento o amministratore di ufficio. I middle
manager sono quelli che si trovano nel mezzo, tra i frontline manager e il livello più alto
dell'organizzazione. Possono avere titoli come direttore regionale, direttore del negozio o
responsabile di divisione. I middle manager hanno principalmente la responsabilità di trasformare la
strategia dell'organizzazione in azione (i.e. strategy execution). Ai livelli superiori dell'organizzazione
ci sono i top manager, che sono invece responsabili di prendere decisioni a livello “corporate” e
stabilire la strategia e gli obiettivi che influenzano l'intera organizzazione. Queste persone hanno in
genere titoli come vicepresidente esecutivo, presidente, amministratore delegato, direttore operativo
o amministratore delegato.

Figura 3.3. I livelli del management

Come abbiamo visto in precedenza, non tutte le organizzazioni sono strutturate per portare a
termine il lavoro utilizzando una forma piramidale tradizionale. Alcune organizzazioni, come ad
esempio Zappos e GitHub, sono configurate in modo più libero, con il lavoro svolto da team di
dipendenti in continua evoluzione che passano da un progetto all'altro in base alle esigenze di lavoro.
Anche se non è così facile dire chi sono i manager in queste organizzazioni, sappiamo che qualcuno
deve svolgere quel ruolo, cioè qualcuno deve coordinare e supervisionare il lavoro degli altri, anche

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se quel "qualcuno" cambia quando cambiano le attività lavorative o i progetti o che "qualcuno" non
ha necessariamente il titolo di manager.

Le competenze manageriali

Per poter svolgere le attività fondamentali di cui sopra, di quali tipi di competenze hanno bisogno i
manager?
Robert L. Katz ha proposto che i manager necessitino di tre competenze critiche nella gestione
d’impresa: tecniche, interpersonali e concettuali (Cfr. Figura 3.4).
Le competenze tecniche sono le conoscenze e le tecniche specifiche del lavoro necessarie per
svolgere in modo abile i compiti assegnati a lavoro.
Queste competenze tendono ad essere più importanti per i frontline manager, perché in genere sono
responsabili dei dipendenti che utilizzano strumenti e tecniche per l’attività di produzione o erogazione
di servizi. Spesso, i dipendenti con eccellenti capacità tecniche vengono promossi a frontline
manager. Ad esempio, Dean White, supervisore della produzione presso Springfield ReManufacturing,
ha iniziato come addetto alla pulizia dei macchinari. Ora, Dean coordina il lavoro di venticinque
persone in sei dipartimenti. Ha notato che all'inizio era difficile convincere le persone ad ascoltare,
specialmente i suoi ex coetanei: "Ho imparato che dovevo guadagnare rispetto prima di poter guidare".
Lui attribuisce ai suoi mentori – cioè, altri supervisor di cui ha seguito l'esempio – il merito di averlo
aiutato a diventare il tipo di manager che è oggi.
Dean è un manager che ha competenze tecniche, ma riconosce anche l'importanza delle
competenze interpersonali, che implicano la capacità di lavorare bene con altre persone sia
individualmente che in gruppo.
Poiché tutti i manager hanno a che fare con le persone, queste competenze sono ugualmente
importanti per tutti i livelli di gestione. I manager con buone capacità interpersonali ottengono il meglio
dalle loro persone. Sanno come comunicare, motivare, guidare e ispirare entusiasmo e fiducia.

Infine, le competenze concettuali sono le abilità che i manager usano per pensare e
concettualizzare situazioni astratte e complesse.
Utilizzando queste competenze, i manager vedono l'organizzazione nel suo complesso,
comprendono le relazioni tra le varie subunità e visualizzano come l'organizzazione si inserisce
nell’ambiente più ampio in cui si trova. I manager possono quindi indirizzare efficacemente il lavoro
dei dipendenti. Ad esempio, Ian McAllister, Senior Director of Product per Uber, indica che un direttore

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generale di successo conosce e comprende l'intera azienda. Con questa comprensione, i manager
sono in grado di mettere tutto e tutti sulla stessa pagina. Queste competenze sono molto importanti
per i top manager.

Figura 3.4. Skill necessarie ai diversi livelli manageriali

Un altro modo di vedere le competenze manageriali è offerto da Gilgeous (1997), che indica quattro
tipologie-chiave di competenze manageriali:
• Capacità di general management (comunicazione, prendere decisioni, gestione problemi)
• Caratteristiche personali (leadership, entusiasmo, flessibilità, correttezza)
• Competenze tecniche/funzionali (marketing o finanza)
• Competenze di settore (e.g. gestione di specifici impianti)

Per Torkilsen (1992) un bravo manager deve possedere tre qualità fondamentali: leadership, effettiva
capacità di prendere decisioni e abilità nella comunicazione. Tali competenze sono di fondamentale
importanza per elevare l’innovazione, gestire il cambiamento, rendere le organizzazioni più efficaci e
più efficienti.

Secondo Adair (1998), il bravo manager deve:


• Definire obiettivi e compiti
• Essere capace di identificare esattamente cosa è necessario fare
• Pianificare – preparare i piani necessari per raggiungere obiettivi
• Coinvolgere – dire a ognuno qual è il suo ruolo e grado di coinvolgimento
• Controllare – monitorare il lavoro in modo che tutto proceda secondo quanto stabilito
• Valutare – avere cognizione di cosa succede e quanto si è vicini al raggiungimento degli
obiettivi
• Motivare – fare sì che ogni persona si senta coinvolta, partecipe e responsabilizzata

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• Organizzare – assicurare che ognuno lavori in modo pianificato e coordinato
• Essere di esempio – mostrare impegno ed entusiasmo

La Figura 3.5 illustra in un diverso schema le competenze chiave del manager moderno.

Figura 3.5. Le competenze chiave del manager

Il Value Based Management

Il Value Based Management (VBM) è un nuovo approccio di management che si riferisce a tradizioni
accademiche e pratiche già introdotte da decenni, ma che solo negli ultimi venti anni si è sviluppato
in modo da distinguersi più nettamente dai contributi progenitori.

Nel corso degli ultimi trent’anni molte imprese hanno adottato i principi del VBM applicando alcune
delle misure di performance a esso associate. Tra queste, alcune si sono distinte per i risultati ottenuti
(un noto esempio è rappresentato dalla Coca Cola soprattutto nel periodo della gestione di Goizueta)
stimolando l’interesse di altre società operatori curiosi di conoscere e apprendere il “segreto del loro
successo”. L’attenzione verso il VBM è stata alimentata da numerose società di consulenza, molte
delle quali collaborano con le imprese pionieri del VBM, che hanno colto il potenziale legato
all’applicazione di questo nuovo paradigma del management. La comprensione delle difficoltà di tale
approccio, l’adozione di corretti processi di adozione e di implementazione dei suoi principi hanno
guidato l’azione delle società di consulenza nel convertire molte imprese verso l’applicazione del
VBM.

L’utilizzo del concetto del “shareholder value” si è così rapidamente diffuso interessando imprese,
società di consulenza, mass media e comunità accademica. Le imprese hanno posto al vertice dei

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propri obiettivi strategici la creazione di valore per gli azionisti. Le società di consulenza, come
ricordato, hanno prosperato proponendo “ricette” per orientare l’impresa alla creazione di valore e
introducendo nuove misure di performance. I giornalisti non mancano di enfatizzare nei loro articoli
l’importanza di questo principio.

Il VBM è un approccio alla strategia aziendale, alla sua organizzazione e al suo funzionamento che
pone quale obiettivo primario la massimizzazione del valore degli azionisti. Esso si fonda su un
fondamentale concetto della teoria finanziaria secondo il quale ogni attività deve offrire un
rendimento uguale o superiore a quello che un investitore avrebbe ottenuto se avesse destinato le
sue risorse a un investimento alternativo con uguali caratteristiche di rischio (per esempio, se avesse
deciso di acquistare le azioni di un’impresa operante nello stesso settore economico e con il
medesimo profilo di rischio). Questo principio si applica sia nelle decisioni microeconomiche (e.g.
valutando se il valore attuale netto di un investimento, quale la sostituzione di un macchinario, sia
positivo) che macroeconomiche, ovvero tutte quelle decisioni che influenzano la vita futura
dell’impresa. Per esempio, la decisione strategica di acquisire una società target o di entrare in un
nuovo mercato viene esaminata sia in termini qualitativi, ma pure in termini quantitativi applicando le
misure di performance tipiche del VBM.

Box: Gli elementi costitutivi del VBM

Tre elementi consentono di definire l’approccio del VBM:

• L’obiettivo dell’impresa consiste nel massimizzare il valore degli azionisti nel lungo periodo. Tale
obiettivo coinvolge l’intera organizzazione. Pertanto, la strategia, i processi, le analisi, gli indicatori
di performance e la cultura aziendale devono essere orientati alla creazione di valore per gli
azionisti.

• L’ammontare del capitale investito dagli azionisti deve essere quantificato. L’impresa crea valore
se e solo il rendimento dei fondi investiti è superiore al costo di opportunità degli stessi.

• Devono esistere misure interne ed esterne della creazione di valore. Le prime consentono di fare
sì che il management sia informato e persegua gli obiettivi legati alla massimizzazione di valore
per gli azionisti. I secondo favoriscono la trasparenza sulla gestione aziendale evidenziando i
risultati raggiunti nel passato e le aree di possibile evoluzione in futuro della creazione di valore.

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Il VBM non affonda le proprie radici solo nella finanza e nella strategia, ma interessa pure altri settori
disciplinari quali l’economia aziendale e la gestione delle risorse umane. La multidisciplinarietà
dell’approccio in questione ha favorito la sua applicazione nel mondo quale strumento di guida e di
controllo della gestione aziendale. Nella pianificazione, le misure di VBM favoriscono, prima,
l’allocazione delle risorse e, poi, favoriscono il controllo e il monitoraggio delle performance,
individuando le aree di eccellenze e le aree di povertà che necessitano un intervento. Allo stesso
tempo, il loro utilizzo interessa la determinazione degli schemi retributivi del management
incoraggiando la coerenza tra gli obiettivi dei manager e gli obiettivi dell’impresa. In un modello di
impresa in cui proprietà e controllo sono separati, il comportamento di chi gestisce le risorse aziendali
è così finalizzato a realizzare le aspettative degli azionisti.

Il Value Based Management e la superiorità degli azionisti

Il VBM trae le sue origini da una tradizione che considera inamovibile la supremazia degli azionisti.
Diversi argomenti supportano tale impostazione:

a. Il benessere della società. Come ricordato da Adam Smith nel suo Wealth of the Nations (1779) la
ricerca del benessere individuale si tramuta nel benessere collettivo grazie all’intervento di una mano
invisibile. Hayek (1960) considera che per essere di beneficio alla società, l’impresa deve perseguire
un solo obiettivo. La ricerca del più alto rendimento di capitale nel lungo periodo attenua il rischio che
il management possa adottare comportamenti opportunistici, favorisce la corretta allocazione delle
risorse e crea un chiaro, specifico e controllabile obiettivo della gestione. Lo stesso Milton Friedman
(1958) puntualizza il rischio della confusione dei ruolo dei manager nel momento in cui puntano alla
responsabilità sociale piuttosto che alla massimizzazione del profitto.

b. La massimizzazione del benessere degli azionisti eleva il benessere di tutti gli altri stakeholders.

c. La competitività nazionale. Se le imprese non focalizzano l’attenzione sulla creazione di valore per
gli azionisti, ovvero coloro che apportano il capitale di rischio, vi è il severo rischio che i capitali
possano uscire dalla nazione conducendola al declino economico.

d. Forza dell’impresa. La gestione dell’impresa non incentrata introno a un chiaro obiettivo, quello
della creazione di valore, rischia di perdere i propri punti di forza rischiando, nel caso in cui tale perdita
sia estrema, di non poter più competere sul mercato.

e. Proprietà dell’impresa. L’argomento più semplice è che gli azionisti sono proprietari dell’impresa e,
quindi, è naturale che perseguano i propri obiettivi. In un mondo in cui è sacro il diritto della proprietà

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privata e la libertà di impresa è considerato inviolabile il concetto che chi possiede un’attività è
legittimato a fare sì che la sua proprietà generi il maggiore rendimento possibile.

Se gli argomenti apportati non sono sufficienti a convincere il management a operare nell’interesse
degli azionisti, i sostenitori del VBM suggeriscono di ricordare il rimpiazzo del management. Se un
gruppo dirigente non è in grado di creare valore per gli azionisti, presto o tardi verrà sostituito (basti
ricordare alla minaccia dei takeovers ben ricordata da Rappaport - 1986). In modo ancora più incisivo,
Treynor (1981) sottolinea che “coloro che criticano l'impegno teso a massimizzare il valore azionario
dimenticano che gli azionisti non solo sono i beneficiari del successo finanziario della società, ma
rappresentano anche la fonte del potere finanziario dei manager. Qualunque management, non
importa quanto potente e indipendente, se trascura l'obiettivo della massimizzazione del valore
azionario, lo fa a suo rischio e pericolo".

Infine, la “contractual theory” offre un’ulteriore spiegazione del perché della supremazia degli
azionisti. L’assioma fondamentale è che tutti coloro che hanno un interesse in organizzazioni che
operano in un ambiente competitivo cercano di limitare il rischio e, quindi, si accontentano di
rendimenti predefiniti (finanziatori che si accontentano di un dato tasso, fornitori che “spuntano” un
determinato prezzo a prescindere dal mark-up dell’acquirente e così via). L’unica categoria che non
ha nessuna garanzia è quella degli azionisti. Nel caso in cui l’impresa dove hanno investito dovesse
entrare in crisi, essi rischiano di perdere l’intero investimento. Pertanto, secondo la teoria in oggetto
è logico che agli azionisti spetti tutto il surplus dell’investimento dopo che sono stati soddisfatti tutti
coloro con un rischio e un pay-off limitato.

Alcuni temi aperti

Il VBM è una disciplina giovane e come tale presenta ancora alcuni limiti. Per esempio:
• Difficoltà di trovare un sistema di misurazione delle performance a breve termine che sia
compatibile con la creazione di valore nel lungo termine. Tra i motivi di tale difficoltà vi è l’ampia
varietà degli indicatori di performance. Tale ampiezza è effettivamente necessaria o è correlata
alla numerosità delle società di consulenza che hanno introdotto sul mercato proprie misure di
performance? In ogni caso, è possibile conciliarle?
• Difficoltà di produrre tecniche meno facilmente manipolabili e meno soggette a errori. E.g., i
sistemi di retribuzione a premi non sempre allineano gli interessi del management con quelli degli

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shareholders (schemi di stock option, molto spessi legati all’andamento del mercato, conducono
a performance modeste).
• Difficoltà di superare il cinismo e lo scetticismo dei managers verso nuove tecniche. Ciò è spesso
dovuto alle difficoltà applicative che accompagnano l’introduzione in azienda del VBM.
• Il VBM sembra più facilmente applicabile in alcuni settori economici piuttosto che in altri
(industria finanziaria, settori con elevate risorse intangibili). Inoltre, il VBM forse è meno completo
di quanto indicano i consulenti. Probabilmente le metriche sono utili nel determinare i punti di
debolezza dell’impresa, nel guidare i manager a risolvere i limiti che frenano la creazione di valore,
ma forse sono meno funzionali nel guidare la strategia aziendale (ancora peggio, possono inibire
azioni positive non quantificabili);
• Difficoltà di far accettare all’universo dei manager che l’impresa deve essere gestita unicamente
nell’interesse degli azionisti.

Su quest’ultimo punto, molti osservano che l’impresa deve ottenere performance a un livello
adeguato in modo da assicurare alla vita aziendale la partecipazione dei diversi soggetti portatori di
interessi (stakeholders) e non solo agli azionisti.

Figura 3.6. L’impresa e i suoi stakeholders

In tale contesto, due temi interessano il rapporto tra l’impresa e i suoi stakeholder:

1. Come suddividere la creazione di valore per soddisfare tutti gli stakeholders?

2. Come incrementare i rendimenti in modo che aumenti la quota da dividere tra i diversi
stakeholders?

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024 Dispensa #4

La Creazione del Valore Economico

Dopo avere introdotto nella precedente Dispensa il concetto di Value Based Management (VBM),
questa dispensa focalizza l’attenzione sulle determinanti alla base della creazione di valore.

La massimizzazione della ricchezza (cenni)

La teoria di creazione del valore appartiene al filone microeconomico della letteratura economica
per il quale l'obiettivo primario dell'impresa è la massimizzazione della ricchezza attraverso la corretta
allocazione delle risorse disponibili.

Per dimostrare che la massimizzazione della ricchezza rappresenta l'obiettivo primario dell'impresa,
la corrente di pensiero microeconomica pone due presupposti di fondo: la polverizzazione del capitale
azionario e la certezza delle previsioni riguardanti la fattibilità degli investimenti.

Il primo presupposto determina la presenza nella compagine proprietaria di numerosi azionisti,


ognuno dei quali motiva la propria scelta di investimento attraverso logiche finanziarie e non
imprenditoriali; l'adozione di logiche finanziarie nelle scelte di investimento rappresenta l'elemento
cardine della dicotomia profitto-crescita tipica dell'impresa moderna a struttura manageriale e,
conseguentemente, diviene il fattore determinante nel conflitto tra azionariato, manager e mercato
generato proprio dall'esistenza di differenti obiettivi aziendali.

Il secondo presupposto fondamentale del filone microeconomico è rappresentato dal requisito di


certezza che devono possedere le previsioni e le metodologie di analisi (metodo dei flussi di cassa
attesi) e dal grado di importanza degli indicatori dei rendimenti aziendali. Le caratteristiche espresse
dalla corrente di pensiero microeconomica sono pertanto la massimizzazione nel tempo dei profitti
aziendali e, in un modello di impresa in cui proprietà e controllo sono separati, il comportamento di
chi gestisce le risorse aziendali finalizzato a realizzare le aspettative degli azionisti.1

1 A tal proposito, "coloro che criticano l'impegno teso a massimizzare il valore azionario dimenticano che
gli azionisti non solo sono i beneficiari del successo finanziario della società, ma rappresentano anche la
fonte del potere finanziario dei manager. Qualunque management, non importa quanto potente e
indipendente, se trascura l'obiettivo della massimizzazione del valore azionario, lo fa a suo rischio e

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Traendo spunto dal presupposto dell'allargamento della base azionaria, i critici muovono alcune
obiezioni alla corrente di pensiero della creazione del valore economico.

Rifacendosi alla teoria del ciclo di vita, Jovenitti (1988) sostiene, per esempio, che i principi del filone
microeconomico sono applicabili solamente alle imprese che si trovano nella fase finanziaria (vedi
box), quando i fabbisogni derivanti dall'espansione dell'attività non possono più essere sostenuti dalle
normali fonti di finanziamento: in tale situazione diviene indispensabile il ricorso al mercato dei
capitali e quindi si affronta il confronto con i rendimenti attesi dal mercato. L'accesso alla fase
finanziaria determina così una trasformazione nella misurazione della performance aziendale: ai
parametri di natura produttiva e commerciale (volume delle vendite, quota di mercato...) si
sostituiscono gli indicatori di natura finanziaria (reddito distribuibile, rapporto prezzo azione/utile per
azione...), i cui rendimenti si confrontano ora con le aspettative degli investitori. Il crescente ruolo
assunto dai nuovi indicatori produce nell'impresa importanti cambiamenti, gestionali e strategici
concernenti la politica degli investimenti e dei finanziamenti .

Box: La teoria del ciclo di vita dell’azienda


Un'interessante interpretazione della teoria del ciclo di vita aziendale è formulata da Jovenitti (cfr.
Jovenitti P. (1988), Le operazioni di finanza straordinaria, in Guatri L. (a cura di), Trattato di Economia
delle Aziende Industriali, EGEA, Milano, pagg. 291-93) che suddivide la vita temporale dell'impresa
in varie fasi (fase tecnica, funzionale, finanziaria e politica) analizzando per ognuna di esse le
caratteristiche peculiari.

Fase tecnica: si caratterizza per l'esercizio di un'attività gestita dai soggetti fondatori che interessa
la produzione di uno o pochi beni o servizi. Importanti sono le conoscenze tecniche e commerciali,
mentre assumono un ruolo di secondo piano la gestione amministrativa e finanziaria. Non vi è
separazione tra proprietà e controllo. Nel corso di questa fase, il successo aziendale in termini
commerciali e di rendimento, reso possibile dall'affermazione sul mercato del prodotto, può
progressivamente ridursi fino a determinare uno stato di crisi, al quale l'impresa può reagire
apportando modifiche al prodotto oppure decidendo di diversificare la produzione e
l'organizzazione commerciale: questa decisione determina il passaggio alla fase successiva.

Fase funzionale: la diversificazione produttiva caratterizza questa seconda fase facilitando il ritorno
al successo e la crescita delle dimensioni aziendali. Parallelamente alla profonda riorganizzazione
della struttura produttiva e commerciale, assume un ruolo autonomo la funzione amministrativa e
finanziaria, mentre si afferma una graduale separazione fra proprietà e controllo.

Fase finanziaria: si sviluppa il processo di diversificazione industriale (nuove attività) e finanziaria


(diffusione del numero degli azionisti), favorito dal ricorso agli strumenti di crescita esterna. Cresce
l'importanza del management che gestisce la funzione finanziaria, settore ora dominante in seno
alla struttura aziendale; all'interno della composizione del pacchetto azionario intervengono

pericolo". Treynor J.L. (1981), The Financial Objective in the Widely Held Corporation, Financial Analysis
Journal, March, pag. 71.

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profondi mutamenti indirizzati a creare una struttura proprietaria diffusa. Viene così accelerata la
trasformazione della società in holding più o meno diversificata.

Fase politica: non sempre si manifesta nel corso della vita aziendale; interessa le società che
attraverso processi di globalizzazione hanno assunto dimensioni e importanza internazionali.

Pertanto, la conclusione alla quale la critica giunge sottolinea due aspetti principali: a) la logica
finanziaria pura è determinante nella scelta degli obiettivi aziendali solo se applicata alla grande
impresa dal momento che, solo per questa, è necessario il ricorso al mercato dei capitali visto il
bisogno di raccogliere il pubblico risparmio per sostenere il piano di investimenti; b) la teoria della
massimizzazione della ricchezza degli azionisti evidenzia in questo contesto uno dei suoi maggiori
limiti, dato che, così formulata, può riferirsi non all'intero ciclo di vita aziendale, bensì solo a un periodo
circoscritto.

I driver della creazione del valore

Dall'evoluzione del pensiero microeconomico trae origine la teoria del valore, che considera fine
ultimo dell'impresa la creazione del valore economico.2 Con tale espressione si vuol indicare la
capacità dell'impresa di generare, per un periodo di tempo abbastanza lungo, un profitto superiore al
costo del capitale dell'impresa. Considerando il ruolo e la funzione svolta dalle imprese nel sistema
economico, l'impresa è in grado di creare valore economico quando il rendimento ottenuto da un
investimento è superiore al costo del capitale necessario per la realizzazione dell'investimento
stesso; la misura del valore economico creato dall'impresa è così data dalla differenza fra il profitto
economico ottenuto e il costo delle risorse impiegate.

Il profitto economico è un concetto sviluppato dagli economisti già nel XIX secolo per creare un
collegamento tra il rendimento dell'impresa e la creazione di valore. Già Alfred Marshall nel suo
Principles of Economics indicava che il profitto generato da un'impresa non è la semplice differenza
delle variabili contabili, ma deve considerare il costo opportunità del capitale, ovvero il rendimento
che le risorse impiegate in azienda potrebbero generare se fossero destinate a investimenti alternativi.

"When a man is engaged in business, his profits for the year are the excess of his
receipts from his business during the year over his outlay for his business. The
difference between the value of the stock of plant, material, etc. at the end and at
the beginning of the year is taken as part of his receipts or as part of his outlay,
according as there has been an increase or decrease of value. What remains of his
profits after deducting interest on his capital at the current rate ... is generally
called his earnings of undertaking or management."

[Alfred Marshall, Chapter 4, The Principles of Economics, 1890].

2 Diversi sono i contributi teorici a sostegno della teoria del valore tra cui si segnala il lavoro di Rappaport
A. (1986), Creating Shareholder Value, The Free Press, New York.

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Successivamente, Solomons quantificò il profitto economico come misura della creazione di valore
definendola la differenza tra i profitti operativi netti dopo le tasse (net earnings) e il costo del capitale,
che rappresenta la compensazione del capitale investito nell'impresa determinata dal costo medio
ponderato del capitale dell'impresa. Tale misura di "variabile residuale" è un concetto simile a quelli
di "reddito residuale", "abnormal earnings", "excess earnings", "excess income", "excess realisable
profits".3

Se i driver della creazione di valore derivano dai concetti fondamentali dell'economia (economie di
scala, economie di scopo, vantaggi di costo, differenziazione di prodotto, ampiezza canali distributivi,
politiche di governo), la creazione di valore viene realizzata attraverso: a) la scelta dei migliori
investimenti: il valore attuale netto dei flussi generati dai progetti migliori incrementa il valore
complessivo dell'impresa; b) l'utilizzo della corretta struttura finanziaria, che tende a contenere il
costo del capitale; c) l'adozione di un ottimale politica di reinvestimento che implica che l'impresa
reinvesta gli utili non distribuiti solo nei progetti che generano rendimenti maggiori del costo del
capitale.

Per cercare di definire quantitativamente la massimizzazione della ricchezza e la conseguente


creazione di valore, la comunità scientifica ed economica ha fatto ricorso sia a grandezze contabili
(profitti, utili, flussi di cassa operativi) sia a indicatori di natura finanziaria (utili per azione, rendimenti
sulle attività - ROA, rendimento del capitale investito - ROI, rendimento del capitale proprio - ROE),
che vengono utilizzati per definire le performance attuali dell'azienda e per prevedere i risultati futuri
attraverso diverse metodologie di valutazione. Dal momento che l'ipotesi di base del filone
microeconomico prevede che la forma di efficienza dei mercati finanziari sia semi-forte, ovverosia il
prezzo di mercato dei titoli deve formarsi attraverso l'utilizzo di tutte le informazioni pubblicamente
disponibili e in assenza di costi supplementari,4 le informazioni contenute nelle grandezze contabili e
finanziarie vengono analizzate dal mercato e incorporate nei prezzi delle azioni. 5

Nella ricerca dei metodi di valutazione più adeguati per la misurazione della creazione del valore, nel
corso degli ultimi anni, alcune nuove metodologie di valutazione basate sul valore si sono diffuse nel

3 Cfr. Solomons, D. (1965), Divisional Performance: Measurement and Control, Homewood, IL: Irwin e
Biddle, G.C, Bowen, R.M., and Wallace, J.S. (1997), Does EVA beat earnings? Evidence on associations
with stock returns and firm values, Journal of Accounting and Economics 24(3), pagg. 301–336 citati in
Bell, L.W. (1998), Economic profit: An old concept gains new significance, Journal of Business Strategy
19(5), pagg. 13–15. Il concetto di reddito residuale (detrazione dal capitale proprio degli interessi figurativi
sul capitale) è espresso da R.N. Anthony. Si veda al riguardo, Guatri L. (1998), Trattato sulla valutazione
delle aziende, Egea, pagg.450-452.
4 Le forme di efficienza del mercato finanziario costituiscono un importante postulato della teoria dell'
Efficient Market Hypothesis (EMS) i cui postulati di base sono: a) la mancanza di barriere all'entrata in
modo che gli operatori non siano in grado di influenzare la formazione dei prezzi; b) la libertà di accesso al
mercato che deve essere priva di costi e l'inesistenza di ostacoli al libero scambio; c) la disponibilità senza
costo delle informazioni significative a tutti gli operatori; d) l'inesistenza di distorsioni causate dal sistema
fiscale. Cfr. Brealey R.A., Myers S.C. (1990), Principi di Finanza Aziendale, Mc Graw Hill, pag 22.
5 Cfr. Worthington A.C., West T. (2001), A Review and Synthesis of the Economic Value-Added Literature,
Working Paper.

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mondo economico. Tali metodologie, che fanno riferimento al metodo dei flussi di cassa scontati,6
individuano una variabile correlata alla creazione di valore su cui misurare la performance
dell'azienda. Tra le altre, si segnalano:

shareholder value creation: metodo secondo cui la creazione di valore è data dal prodotto tra il valore
di mercato delle azioni e la differenza tra il rendimento degli azionisti e il costo del capitale proprio;7

market-value-added (MVA): metodologia sviluppata dalla società Stern, Stewart secondo cui il valore
di mercato aggiunto è la differenza tra il valore di mercato (capitalizzazione di borsa e, quindi, valore
disponibile per gli azionisti) e il capitale investito dagli azionisti così come appare nei documenti
contabili;

CFROI (cash flow return on investment): metodologia sviluppata dalla società Holt Value Associates'
e dal Boston Consulting's che misura il rendimento del cash flow generato sul capitale investito
attraverso la formula:

CFROI = (EBIT modificato (1-t) + Ammortamento & altre variazioni non monetarie) / Capitale
Investito

economic-value-added (EVA): metodologia ideata e registrata dalla società Stern Stewart che,
rifacendosi al concetto di valore residuale (residual income) misura il valore creato dopo che tutti i
finanziatori della società (azionisti e creditori vari) sono stati adeguatamente remunerati.

Tutti i modelli basati sul valore si ispirano alla logica dei flussi finanziari e si incentrano su quattro
elementi di fondo: il concetto di flusso di cassa o di grandezze a esso riconducibili, il concetto di
capitale investito, la misura di rischio, e l'orizzonte temporale di riferimento.

Flusso di cassa: come noto, un'impresa produce valore quando la somma delle risorse generate è
superiore all’ammontare di risorse assorbite. La dimensione delle risorse è così un elemento
essenziale che deve essere considerato da qualunque criterio di valutazione prescelto. E’ oramai
prassi consolidata considerare con il termine risorse i flussi di cassa assorbiti e liberati dall’impresa in
un periodo di tempo: i flussi di cassa sono così la variabile quantitativa di riferimento delle metodologie
di valutazione e assumono diverse configurazioni a secondo dei soggetti a cui si riferiscono (impresa
- FCFF; azionisti, FCFE).

Capitale investito: per capitale investito, si intende la somma del capitale proprio (patrimonio netto) e
dei debiti di un'impresa, ovvero dell'ammontare complessivo di risorse finanziarie a disposizione
dell'impresa. In altri termini, è l'investimento netto in un'impresa di chi fornisce capitale ed è pari alla
somma del capitale circolante netto e delle attività immobilizzate (attività fisse, avviamento e le altre
attività di natura operativa).

6 Sebbene tali metodologie siano più semplici e facili da usare rispetto al metodo dei flussi di cassa scontati,
non sempre le variabili individuate da ogni singolo metodo sono perfettamente correlate con il valore
derivante dall'attualizzazione dei flussi di cassa.
7 Nel calcolo del profitto economico, viene utilizzato il valore di libro delle azioni anziché il loro valore di
mercato e il ROE anziché il rendimento degli azionisti.

Dispensa 4 – Gestione Aziendale


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Rischio: la misura del rischio è il costo medio ponderato del capitale che dipende dalla struttura
finanziaria (il rapporto tra i debiti e il patrimonio netto), preferibilmente calcolata sulla base dei valori
di mercato e non sui valori di libro, e dalla determinazione del costo del capitale proprio. In un'impresa
indebitata (levered firm) il costo del capitale è la media aritmetica del costo del capitale dell'impresa
che proviene da diverse fonti (i.e., debito, azioni privilegiate e azioni ordinarie), dove il costo di ogni
fonte viene ponderato per la proporzione di ogni fonte di finanziamento nella struttura finanziaria
dell'impresa. Pertanto:

dove: WACC = costo medio ponderato del capitale; E = capitale proprio; D = debiti; D+E = capitale
investito; re = costo del capitale proprio; rd = tasso di interesse sul debito; t = aliquota fiscale media.

Una sola osservazione: se l'individuazione del tasso di interesse sul debito non presenta particolari
difficoltà, la determinazione del costo del capitale proprio costituisce una delle principali controversie
nel mondo finanziario. La metodologia più utilizzata è quella del Capital Asset Pricing Model (CAPM),
secondo cui il rendimento di un singolo titolo azionario è pari alla somma del rendimento offerto da
un'attività priva di rischio e dal premio al rischio, che è funzione del contributo del singolo titolo al
rischio del portafoglio di mercato e della covarianza dei rendimenti con le attività che compongono il
portafoglio di mercato:8

ri = Rf +  (rm - rf)

dove: r = tasso di rendimento dell’azione; rf = tasso del rendimento privo di rischio; rm = tasso di
rendimento del mercato;  = beta del titolo.

Orizzonte temporale: nella scelta dell'orizzonte temporale non esiste un criterio universalmente
valido considerato che il valore creato da un'impresa è influenzato dal settore economico in cui
l’impresa opera, dalla prevedibilità dei risultati, ecc. Se in linea generale, si considera un numero di
periodi limitato (da cinque a dieci anni) con un ripartizione delle osservazioni su base annua, più
correttamente si dovrebbe far coincidere l'orizzonte temporale coincide con il periodo di vantaggio

8 Markowitz, Sharpe, Lintner e Mossin hanno contribuito allo sviluppo della CAPM, che è un modello di
equilibrio alla base della moderna teoria finanziaria ed è derivato usando principi di diversificazione con
assunzioni semplificate. Secondo la CAPM, dal momento che il rischio non sistematico (unico di ogni titolo)
può essere ridotto dalla diversificazione del portafoglio, ne deriva che il rischio che deve essere valutato
dagli investitori non sia il rischio totale, bensì solamente il rischio di mercato che, pertanto, determinerà il
premio al rischio per l’investitore. La relazione tra le oscillazioni dei prezzi dei singoli titoli e quelle di
mercato, ovvero la diversa variabilità dei titoli al mercato, è misurata da un indicatore statistico denominato
coefficiente , che è il rapporto tra la covarianza tra il rendimento dell'azione e il rendimento del portafoglio
di mercato e la varianza di quest'ultimo.

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competitivo, ovvero il periodo di tempo nel quale un'impresa genera extra-rendimenti sui suoi
investimenti incrementali.9

Sebbene sempre più società si orientino ai modelli value-based grazie alla possibilità di valutare in
modo più profondo tutti gli aspetti legati alla gestione aziendale, la letteratura empirica non ha
individuato, a oggi, nessun criterio basato sulle tradizionali variabili (e.g., ROI, utile per azione, …) in
grado di definire con precisione l'evoluzione della ricchezza degli azionisti. Ciò perché una misura di
tale tipo non può essere considerata applicabile da tutti i vari soggetti interessati nei differenti aspetti
della performance di un'azienda.

Il Business Model10

Un business model, o modello di business, è una descrizione concisa e sistematica di come


un'azienda crea, consegna e cattura valore. In parole povere: come riesce a fatturare.
Questo concetto è fondamentale per comprendere come un'azienda opera, guadagna profitti e si
sviluppa nel tempo. Il modello di business definisce i principali elementi di un'azienda, tra cui il suo
prodotto o servizio, il mercato di riferimento, la strategia di marketing, la struttura dei costi e le fonti di
revenue.
Peter Drucker ha definito il termine – "ipotesi su ciò per cui un'azienda viene pagata" – che fa
parte della "teoria del business" di Drucker. Questo è un concetto che Drucker ha introdotto in un
articolo HBR del 1994 che in realtà non menziona mai il termine “modello di business”.
La teoria del business di Drucker era un insieme di ipotesi su ciò che un'azienda farà e non farà, più
vicina alla definizione di strategia di Michael Porter. Oltre a ciò, per cui un'azienda viene pagata,
"queste ipotesi riguardano i mercati. Si tratta di identificare clienti e concorrenti, i loro valori e
comportamenti. Riguardano la tecnologia e le sue dinamiche, i punti di forza e di debolezza di
un'azienda". Drucker è più interessato alle ipotesi che al denaro qui perché ha introdotto la teoria del
concetto di business per spiegare come le aziende intelligenti non riescono a tenere il passo con le
mutevoli condizioni del mercato non riuscendo a rendere esplicite tali ipotesi.
Una volta che inizi a confrontare un modello con un altro, si entra nel regno della strategia, con
cui i modelli di business sono spesso confusi. In "Why Business Models Matter", Joan Magretta torna
ai primi principi per fare una distinzione semplice e utile, sottolineando che un modello di business
è una descrizione di come funziona la tua attività, ma una strategia competitiva spiega come
farai meglio dei tuoi rivali. Ciò potrebbe avvenire offrendo un modello di business migliore, ma può
anche offrire lo stesso modello di business a un mercato diverso.

9 Tale affermazione si basa sull'idea che le forze competitive tendano ad annullare gli extra-rendimenti e
facendo un modo che le imprese generino un rendimento pari al costo del capitale. La capacità di estendere
gli extra-rendimenti più a lungo possibile è il presupposto di fondo del vantaggio competitivo, che è
determinato da tre elementi: l'attuale rendimento sul capitale (il più alto possibile); la velocità di
cambiamento del settore economico in cui l'impresa opera (se il settore è fortemente competitivo e
dinamico, gli investitori tendono a ridurre il periodo di vantaggio competitivo); le barriere di entrata (più
alte sono, più lungo è il periodo di vantaggio competitivo). Cfr. Mauboussin M. J. (1997), Thoughts on
Valuation, Credit Suisse First Boston Equity Research, pagg. 8-9.
10 https://hbr.org/2015/01/what-is-a-business-model

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Tra i più autorevoli sostenitori del pensiero che "un modello di business è un insieme di
assunzioni o ipotesi" c'è Alex Osterwalder, che ha sviluppato quello che è probabilmente il modello
più completo su cui costruire tali ipotesi. Il suo “business model canvas" (cfr. Figura 3.1) in nove parti
è essenzialmente un modo organizzato per rappresentare i blocchi principali di un’azienda,
esponendo le proprie ipotesi non solo sulle risorse chiave e le attività chiave della catena del valore,
ma anche sulla proposta di valore (value proposition), le relazioni con i clienti, i canali, i segmenti di
clienti, le strutture dei costi e i flussi di entrate - per vedere se hai perso qualcosa di importante e
confrontare il tuo modello con gli altri.

Figura 3.1 – Business Model Canvas

Il Business Model Canvas (o BMC), in definitiva, è uno strumento visivo utilizzato per rappresentare in
modo conciso e chiaro il modello di business di un'azienda o di un'organizzazione, ed in particolare:
• Segmenti di Clientela (Customer Segments): In questa sezione, si identificano i diversi gruppi
di clienti o segmenti di mercato a cui l'azienda si rivolge. Questi possono essere clienti
individuali o gruppi di clienti con esigenze simili.
• Proposta di Valore (Value Proposition): Qui si specifica in che modo l'azienda crea valore per
i suoi clienti. Si tratta delle caratteristiche, dei benefici e dei vantaggi che rendono unico il
prodotto o il servizio dell'azienda.
• Canali di Distribuzione (Channels): Questo elemento descrive i canali attraverso i quali
l'azienda raggiunge e interagisce con i suoi clienti. Ciò può includere canali fisici, digitali o una
combinazione di entrambi.

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• Relazioni con i Clienti (Customer Relationships): Qui si definiscono i tipi di relazioni che
l'azienda stabilisce con i suoi clienti. Questo può includere assistenza clienti, servizi post-
vendita, interazioni online, e così via.
• Flussi di Ricavi (Revenue Streams): Questa sezione riguarda come l'azienda genera entrate.
Si identificano le diverse fonti di revenue, ad esempio la vendita diretta, le licenze, gli
abbonamenti, la pubblicità, ecc.
• Risorse Chiave (Key Resources): In questo elemento si elencano le risorse fondamentali
necessarie per far funzionare il modello di business. Queste risorse possono essere fisiche
(ad esempio, impianti di produzione), intellettuali (come brevetti o know-how), o umane
(come competenze chiave del personale).
• Attività Chiave (Key Activities): Si tratta delle azioni chiave che l'azienda deve intraprendere
per far funzionare il suo modello di business. Queste attività possono comprendere la
produzione, la distribuzione, la promozione, la ricerca e sviluppo, ecc.
• Partner Chiave (Key Partnerships): Qui si identificano le collaborazioni o le partnership
strategiche che sono fondamentali per il successo dell'azienda. Questi possono essere
fornitori chiave, partner di distribuzione, collaboratori nella catena del valore, ecc.
• Struttura dei Costi (Cost Structure): In questa sezione si elencano i principali costi associati
all'operatività dell'azienda. Questo può includere costi fissi, costi variabili, costi di
distribuzione, costi di marketing, ecc.

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Modello di creazione di valore e cattura del valore (value creation vs value capture).

Verdin & Tackx (2015)1 definiscono la creazione di valore come il beneficio percepito per il cliente.
Ciò è in linea con il concetto microeconomico dell'utilità dell'offerta di un'azienda per i propri clienti,
sia che migliori la qualità della vita per un consumatore finale (B2C) o aumenti la redditività di
un'azienda (B2B). Se un prodotto o un servizio non riesce a farlo, ovviamente non ha senso portarlo
sul mercato.

In linea con quanto detto prima, offrire un prodotto o un servizio utile da solo non è sufficiente. Le
strutture dei prezzi e dei costi dovranno tenere conto di una sufficiente “cattura di valore”2. Il fornitore
deve generare entrate e profitti sufficienti per i suoi azionisti. Se il valore creato da un'impresa privata
non è sufficientemente “catturato”, non vi è redditività a lungo termine dell'offerta.

Figura 4.1 Il framework di creazione di valore-cattura di valore (Verdin & Tackx, 2015)

Zoomare sulla distinzione e l'interazione di queste due dimensioni della creazione di valore e della
cattura di valore, ci porta al seguente modello dinamico3 che deve essere visto come un quadro per

1 Vedere: Verdin, P., & Tackx, K. (2015). Are you creating or capturing value? A dynamic framework for
sustainable strategy. M-RCBG Working Paper Series, 36, 1-19.
2 La “cattura del valore” in letteratura è anche chiamata “appropriazione di valore”, rivendicazione di
valore o estrazione di valore, sebbene quest'ultima abbia una connotazione più negativa al giorno d'oggi,
vedi ad esempio P. Strebel and S. Cantale (2014), “Is Your Company Addicted to Value Extraction?”,
Sloan Management Review, 55, pp. 95-96.
3 Una versione precedente di questo modello è stata introdotta in: G. Hawawini, V. Subramanian, and P.
Verdin, “Creating and Capturing Value: The Strategic Drivers of Performance”. Working paper, INSEAD,
Fontainebleau. 2003; illustrata nel caso studio di PayPal (2006), in: S. Nysten and P.Verdin. “Successfully
creating and capturing value, the e-business model of PayPal Inc”. Working Paper, ULB-Solvay Business
School, 2004; e applicata all’industria dell’asset management, in: P. Verdin, “The Strategic Imperative of
Creating and Capturing Value”, in: I. Walter and P. Verdin, eds., “Growth and Value Creation in Global
Asset Management, SimCorp StrategyLab/Palgrave, London/Copenhagen, June 2010; ristampato in: I.
Walter and M. Pinedo, eds., Handbook of Asset Management, Palgrave/MacMillan, London/NY, 2013.
aiutarci a comprendere la sfida strategica che influenza la situazione di un'azienda in un determinato
mercato o settore.

1. Waking up from the dream (svegliarsi dal “sogno”)

Iniziamo dalla situazione di "sogno" (in basso a destra nella Figura 4.1), in cui le aziende consolidate
generano profitti consistenti anche se il valore che creano può essere relativamente limitato o
addirittura in diminuzione. Questo sembra valere per molte aziende con posizioni di mercato solide
o (quasi) monopolistiche, come nel caso di molte aziende nel settore delle telecomunicazioni, delle
utilities o dei servizi postali prima della deregolamentazione, e per le grandi compagnie petrolifere
negli anni '60, IBM negli anni '80 e Kodak o De Beers fino agli anni '90.

Tutte queste aziende hanno goduto dei vantaggi della loro posizione, fino a quando l'antitrust, la
deregolamentazione o nuovi concorrenti sono comparsi, mettendo pressione sui prezzi e sui margini.

La comparsa e la crescita improvvisa di molti nuovi arrivati, in particolare quelli che traggono vantaggio
dalla tecnologia e dalle opportunità basate su Internet, forniscono molti altri esempi di attività o settori
redditizi minacciati da nuovi concorrenti creativi, che sia nel settore dei taxi, dell'ospitalità, dei servizi
finanziari o del commercio al dettaglio. Le pressioni dalla (de)regolamentazione o dagli innovatori
"disruptive" spingono invariabilmente le aziende consolidate nell'angolo in basso a sinistra della
figura 4.1, noto anche come "inferno".

Inizialmente, la pressione passa inosservata e le aziende tendono a essere accecate dalla negazione:
"questo non succederà a noi"; "durerà il nostro tempo"; "gustiamoci i bei tempi finché durano";
"business as usual" o "non capite, siamo diversi!". Tuttavia, i prezzi e i margini saranno sotto pressione
e daranno un segnale di sveglia, probabilmente portando a una riflessione e reazione strategica.

In realtà, però, spesso prevale l'inerzia, e la tensione tra ottimizzazione a breve termine e
cambiamento strategico a lungo termine si risolve spesso a vantaggio del primo. La paura eterna della
"cannibalizzazione" si inserisce chiaramente in questo schema.

Inoltre, dispongono di varie misure tampone per cercare di evitare o almeno ritardare le pressioni
immediate, potenzialmente aggravando la crisi in atto. Tali misure si presentano in diverse forme:
fissare i prezzi, collusionare o formare cartelli, introdurre aumenti di prezzo nascosti o, al contrario,
tagliare i prezzi in modalità panico; tagli dei costi e ristrutturazioni (senza una strategia basata sui
costi); i soliti sospetti del "cross-selling" (anche quando il cliente potrebbe non essere interessato
all'"acquisto incrociato"), del "one-stop shopping" (anche quando il cliente non si ferma) o dei "servizi
a valore aggiunto" (senza alcun valore aggiunto); mirare a "vincolare il cliente" anziché creare una vera
fedeltà basata su un valore superiore per il cliente; fare lobbying per una maggiore regolamentazione;
e ultimo ma non meno importante: fusioni e acquisizioni mirate all'acquisto della concorrenza anziché
batterla (in nome di economie di scala, sinergie o "consolidamento del settore"), solo per citarne
alcuni (tutte variazioni di quello che chiamiamo "gioco orizzontale", muovendosi lateralmente nella
parte inferiore del modello).

Prima o poi, le misure difensive potrebbero non essere sufficienti per evitare il destino delle pressioni
da parte dei clienti, della concorrenza o del pubblico, spingendo ulteriormente verso l'angolo in basso
a sinistra: questo è l'"inferno"! È caratterizzato dalla commoditizzazione, ossia dalla bassa creazione
di valore e dalla bassa cattura di valore (spesso definito anche come "inferno delle commodity",
"trappola delle commodity" o "magnete delle commodity"). Questa potrebbe essere la sorte o l'ultima
fase delle aziende in settori in declino prima di finire in bancarotta (ad esempio American Airlines) o di
essere acquisite (ad esempio la divisione di telefoni cellulari di Nokia).

2. Climbing out of Hell

L'unica via d'uscita da questa situazione è iniziare a (ri)concentrarsi sulla creazione di più valore per il
cliente rendendo l'offerta più convincente nei confronti dei clienti. Tale riorientamento richiede di
scalare il muro dell'innovazione, rappresentato da un movimento verso l'alto lungo l'asse verticale del
nostro modello, forse la priorità strategica più importante di sempre come affermato ad esempio
dall'ex CEO Samuel Palmisano di IBM: "O si innova, o si è nell'inferno delle materie prime".

Creare e innovare valore per i clienti richiede ovviamente duro lavoro e investimenti a lungo termine.
Sono al centro del successo strategico, o almeno la fonte ultima o il fattore chiave di esso. E, come
studi recenti hanno sostenuto e illustrato, e alcuni basati su prove empiriche, ci sono solo due modi
per aggiungere e creare valore con successo in modo coerente: o diventando il campione del prezzo
più basso (che richiede una continua "innovazione dei costi)" o concentrandosi su un valore superiore
per il cliente (mirando a un prezzo elevato, richiedendo un'innovazione continua del valore).

In poche parole: a meno che tu non intenda e riesca a diventare il Wal-Mart o la Ryanair del tuo settore
che offre i prezzi più bassi e sempre più bassi, la tua strategia dovrebbe mirare a offrire continuamente
un valore migliore - migliore di prima e migliore dei concorrenti. Alcuni dei risultati più recenti
sembrano supportare l'opinione secondo cui concentrarsi sul valore nella maggior parte dei casi è la
strada migliore da percorrere, piuttosto che sul prezzo. Ciò consente di catturare parte di quel valore
attraverso prezzi più alti, mentre la strategia del prezzo basso dovrebbe consentire di catturare di più
grazie a costi sempre più bassi (e ai conseguenti aumenti di volume).

Includiamo qui qualsiasi tipo di innovazione di valore, che copre l'intero spettro dai miglioramenti
marginali a quelli radicali o dirompenti nei prodotti, nei servizi o nel modello di business, purché creino
valore aggiunto per il cliente. Si può notare incidentalmente che il termine ormai così popolare di
innovazione "dirompente" rivela in realtà indebitamente qualche pregiudizio difensivo o ripiegato su
se stesso, poiché a nostro avviso non vi è nulla di dirompente o perturbato per il cliente o il
consumatore, ma solo nuove opportunità e valore aggiunto e la potenziale perturbazione si riferisce in
primo luogo all'impresa che la offre o è interessata dalla nuova offerta che rischia di essere
"perturbata".

Dovrebbe essere chiaro che il valore viene creato a livello di un'azienda, non a livello di un settore,
come Ted Levitt ha giustamente sostenuto ora più di 50 anni fa nel suo articolo ‘Market Myopia’: “In
verità, non esiste un'industria in crescita, credo. Ci sono solo aziende organizzate e gestite per creare
e capitalizzare opportunità di crescita.” Da allora è stato inoltre ripetutamente dimostrato in una serie
di studi e approcci che l'industria e altri fattori esterni spiegano in realtà solo una piccola parte della
variazione della redditività tra le imprese, molto in linea con questa prospettiva.

3. From Nightmare to Heaven


La creazione di valore è una condizione necessaria ma non sufficiente per una performance superiore
e duratura. Se tutto ciò che fai è fornire valore ai clienti e non mantenere abbastanza nel processo,
ovviamente non sei in un buon posto, una situazione che sembra un "incubo": ci lavori davvero
duramente, ma non vieni premiato.

Tale sembra essere la situazione di alcune aziende affermate che riescono a proporre innovazioni che
i clienti apprezzano ma non sono (ancora) in grado di raccogliere i loro benefici, a causa di un modello
di business inefficace o di una proposta di valore difettosa, in particolare in condizioni altamente
competitive (ad esempio Philips).

La maggior parte se non tutte le startup condividono questa sfida. Possono avere grandi quantità di
"bulbi oculari" (vedi la bolla dotcom del 2000 o Facebook fino a poco tempo fa) o anche acquirenti (ad
esempio Amazon) ma poco o nessun profitto e possono sopravvivere solo finché gli investitori
continuano a mantenere la fiducia che prima o poi verranno ricompensati profumatamente (e quindi
si sposteranno in alto a destra come Facebook).

In nessun modo stiamo affermando che solo in seguito dovremmo preoccuparci dell'acquisizione di
valore, dal momento che potrebbe essere difficile convincere i clienti a iniziare a pagare (di più) più
tardi. In linea di principio sembra che dovremmo essere in grado di allineare i nostri prezzi il più
possibile e il più vicino possibile con il pacchetto di valore specifico o la proposta di valore che stiamo
offrendo. PayPal ad esempio, è riuscito ad adattare gradualmente la sua struttura dei prezzi in linea
con le funzionalità che stava aggiungendo nel tempo e questo potrebbe essere almeno uno dei motivi
del suo successo laddove altri hanno fallito12 Quando sei in grado di fare proprio questo, sei sulla
buona strada per il "paradiso".

Catturare valore significa che dovresti essere in grado di trasformare la tua creazione di valore (come
realizzato in una proposta di valore concreta) in un business sostenibile, attraverso quello che di solito
chiamiamo un "modello di business" Lo studioso di strategia David Teece, ad esempio, lo ha messo
così: "L'essenza di un modello di business sta nel definire il modo in cui l'impresa fornisce valore ai
clienti, invoglia i clienti a pagare per il valore e converte quei pagamenti in profitto".13 Questo è il punto
in cui il prezzo diventa cruciale14: il mezzo per catturare una quota del valore creato per assicurare la
sostenibilità fornendo ritorno e risorse per ulteriori investimenti.

Nike è un'azienda che è riuscita a creare più valore per i propri clienti approcciando in modo
sequenziale sport diversi attraverso una strategia di "categoria offensiva"15, concentrandosi
fortemente sull'esperienza del cliente piuttosto che sui benefici funzionali. Sebbene a un livello
inferiore sia di creazione di valore che di acquisizione di valore rispetto a Nike, Singapore Airlines e
Southwest Airlines o Ryanair all'altra estremità dello spettro sovraperformano i loro concorrenti diretti
su entrambe le dimensioni grazie a una proposta di valore chiara e in continuo miglioramento,
rimanendo molto redditizi in un settore difficile e in un ambiente economico.

Così facendo possiamo finalmente arrivare in "paradiso" – tuttavia non è un paradiso dove ci si può
sedere e rilassarsi. Anche se la tentazione ci sarà, specialmente quando hai avuto successo e hai
creato il tuo nuovo prodotto, mercato, industria e guadagnato una posizione rispettabile, non puoi
riposare sugli allori. Come dimostrano sempre più mercati e casi, non esiste quasi mai un vantaggio
intrinsecamente sostenibile. In ultima analisi, la sostenibilità deriverà dalla nostra capacità di
innovare, sostenere e migliorare costantemente il nostro valore (proposition) per il cliente (come
sempre più illustrato e argomentato, ad esempio nei recenti contributi su "vantaggio transitorio"16 e
"ripetibilità"17).

Se ci si concentra troppo sulla cattura del valore a scapito della continua creazione di valore, si rischia
di cadere nella trappola del "fallimento del successo". La maggior parte delle aziende ha riscontrato
questo ad un certo punto nel tempo, e molti di loro non sono stati in grado di mantenere la loro
posizione o il record di successo. Ad esempio, solo il 13,4% delle aziende che erano nella top 500 di
Fortune nel 1955 sono ancora lì oggi18 e il numero medio di anni in cui un'azienda sopravvive nella
stessa lista è ora inferiore a 15 anni19.

Sembra esserci una certa "legge di gravità" che ci tira invariabilmente giù dal cielo, indebolendo i nostri
sforzi di creazione di valore relativo e mettendoci a dormire (nello scenario del sogno), mentre
diventiamo troppo concentrati sull'ottimizzazione della cattura (riflessa in metriche fuorvianti come
margine percentuale, quota di mercato ecc.) Potremmo persino aumentare la nostra cattura, mentre
la nostra creazione di valore sta diminuendo, mungendo, raccogliendo, migliorando i risultati finanziari
a breve termine, tagliando gli investimenti e perdendo di vista la futura creazione di valore, fino a
quando la deregolamentazione, l'antitrust e / o nuovi concorrenti si presentano spingendoci sulla
difensiva e alla fine sfidando la nostra sopravvivenza.

Questo tipo di movimento può verificarsi molto rapidamente, come dimostrato da esempi recenti
come Nokia e Blackberry nel settore dei telefoni cellulari, e sembra che il tempo tra il comodo "sogno"
e una corsa per la sopravvivenza all'"inferno" si sia ridotto rapidamente, in particolare in quelle aree in
cui le nuove tecnologie (e i modelli basati su Internet che spesso esibiscono caratteristiche "chi vince
prende tutto") dominano sempre più. I nostri risultati empirici riportati di seguito su un ampio gruppo
di aziende Fortune 500 illustrano ed elaborano questi punti.

4. The dynamic picture

In sintesi, guardando indietro alla Fig. 4.1, per le aziende esistenti c'è un flusso naturale in senso orario
dal sogno (casella in basso a destra) al paradiso (casella in alto a sinistra) attraverso le fasi intermedie
dell'inferno e dell'incubo. Dal sogno all'inferno siamo spinti dall'incapacità di reagire alla pressione
competitiva o normativa. Le aziende di successo trovano nuovi modi per creare valore per i propri
clienti e muoversi verticalmente. Se riusciranno anche a monetizzare la loro offerta, si verificherà lo
spostamento verso il cielo. Una volta arrivati nella situazione celeste, è necessario un miglioramento
continuo per non diventare compiacenti e resistere alla continua tentazione di scivolare in un sogno.

I nuovi entranti di maggior successo entrano in alto a sinistra: hanno trovato un nuovo modo per creare
valore per un numero di clienti che apprezzano e acquistano il prodotto o i servizi. Sfortunatamente,
molte di queste aziende (anche quelle grandi come Amazon) non riescono immediatamente a estrarre
un profitto sostanziale dalla loro offerta e rischiano di scomparire se non consegnano o riescono a
sostenere le aspettative degli investitori.

Questa tensione tra creazione e cattura culmina al punto in cui ci rendiamo conto che l'unico modo
affidabile per sapere e verificare se stiamo effettivamente creando valore sufficiente rimane ... se
siamo in grado di catturarlo (abbastanza) sulla scia della crescente concorrenza. Non è quindi
nemmeno la "disponibilità a pagare", ma in definitiva qualunque cosa il cliente stia effettivamente
pagando o abbia pagato, ciò che conta di più.
GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #5

Il Percorso Strategico dell’Impresa

La pianificazione strategica

La pianificazione strategica è il processo che si compone di obiettivi, decisioni e


successive azioni che guidano l’impresa nel conseguire il proprio vantaggio competitivo e
ottenere profitti superiori a quelli dei concorrenti. In altri termini, è il processo attraverso
cui l’impresa analizza criticamente l’ambiente esterno e interno, definisce le linee-guida
strategiche, formula strategie ai diversi livelli dell’organizzazione (aziendali, per area di
business, per funzioni aziendali) ed esegue le strategie con l’obiettivo di soddisfare gli
interessi e le attese di tutti coloro che condividono interessi con l’azienda.

Attraverso la gestione strategica si cerca di dare una risposta a quattro specifiche


domande:
● perché l’impresa esiste, ovvero qual è la ragione della sua esistenza;
● quali sono gli obiettivi che l’impresa vuole raggiungere;
● di quali risorse l’impresa necessita per assicurare il suo successo;
● quali sono i clienti che vuole servire e, di conseguenza, quali devono essere le
caratteristiche dei prodotti/servizi o erti per soddisfare i bisogni dei clienti.
Il processo strategico, di cui nella Figura 5.1 si o re una semplice rappresentazione
schematica, si compone di due fondamentali fasi: la formulazione della strategia e la
sua implementazione.

La fase di formulazione ha inizio con la valutazione del posizionamento dell’impresa in


termini di missione, obiettivi e strategie adottate. Il management cerca di individuare il
posizionamento (mappa) dell’impresa nel suo ambiente di riferimento al momento

Dispensa 5 – Gestione Aziendale


Prof. Michele Modina
dell’osservazione (ovvero al tempo, t0) per poi definire il percorso da intraprendere (rotta)
per raggiungere il posizionamento desiderato in un mercato dinamico.

Figura 5.1: Il processo strategico

L’osservazione dell’ambiente esterno (mercato, settore, concorrenza, clienti) e


dell’ambiente interno (struttura organizzativa della società) consente di individuare i
fattori strategici di successo. La combinazione tra opportunità e minacce presenti sul
mercato (risultato dell’analisi esterna) e punti di forza e di debolezza dell’azienda
(risultato dell’analisi interna) costituiscono i presupposti per ridefinire la direzione
strategica dell’impresa o formularne una nuova ai diversi livelli organizzativi. La direzione
strategica, che di solito trova sintesi nella missione della società, indica gli obiettivi di
lungo periodo dell’impresa, ovvero definisce le ragioni per cui un’azienda esiste e opera.

La fase finale del processo strategico è l’implementazione della strategia attraverso la


definizione di piani operativi che interessano l’intera struttura organizzativa sotto diversi
profili (leadership, struttura di governo, risorse umane, …): in questa fase, il management
indirizza le risorse di cui dispone (umane, materiali, finanziarie) verso il raggiungimento
degli obiettivi strategici. Il periodico monitoraggio dello stato di avanzamento dei piani di
azione è utile per verificare il reale vantaggio competitivo dell’impresa e, in caso di
scostamenti, per accelerare il piano di implementazione o apportare correzioni alla
direzione strategica.

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Se l’implementazione riguarda l’esecuzione del piano strategico, la formulazione interessa
l’attività di analisi che conduce alle decisioni circa gli obiettivi dell’impresa e al
conseguente sviluppo del piano strategico. Partendo dall’analisi dell’ambiente esterno e
interno, l’impresa identifica la sua posizione competitiva corrente e futura integrando i
risultati dell’analisi SWOT nella missione e negli obiettivi strategici (per il cui
approfondimento si rinvia alla Dispensa #6).

L’impresa, che si dota di un processo strutturato di pianificazione, eleva la sua capacità di


formulare una chiara visione strategica, pone in atto azioni coerenti con gli obiettivi
definiti, fa leva sui fattori critici di successo e riesce a comunicare correttamente la sua
rotta ai soggetti con cui è in relazione (mercato, clienti, banche, …).

Una volta che l’impresa ha definito la sua missione e i suoi obiettivi, deve tradurli in
adeguate strategie a livello corporate, a livello business e per area funzionale1 a cui
seguiranno mirati piani di azione necessari per gestire e controllare la realizzazione del
piano strategico.

La definizione delle azioni strategiche e tattiche deve rispondere a tre fondamentali


domande:

● chi l’impresa vuole servire;

● quali sono i bisogni che devono essere soddisfatti;

● in che modi i bisogni devono essere soddisfatti.

La prima domanda richiede l’individuazione dei mercati che l’impresa vuole servire (quali
mercati servire?), la seconda riguarda la tipologia di prodotti/servizi che devono essere
forniti (come di erenziare i prodotti/servizi o erti?), mentre la terza indica le competenze
distintive che l’impresa deve disporre per soddisfare con successo le necessità (di quali
competenze disporre?).

In tale approccio, dove al centro dell’attenzione viene posto il cliente, l’iterazione tra
mercati, prodotti/servizi e competenze distintive determina l’ampiezza delle attività di
un’impresa che può variare a seconda della strategia competitiva e della strategia di
crescita dell’impresa.

1
La strategia corporate e la strategia di business sono oggetto rispettivamente della Dispensa #10 e della Dispensa
#11. In questa dispensa vengono presentati alcuni cenni sulla strategia di business conosciuta come strategia
competitiva generica.

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La strategia competitiva riguarda il modo in cui l’impresa vuole creare valore per i propri
clienti in un modo che la di erenzi dai suoi concorrenti. In generale, l’impresa cerca il
proprio vantaggio competitivo perseguendo una delle tre strategie competitive generiche:

a) o rendo prodotti/servizi che sono di erenti da quelli dei concorrenti e che sono
percepiti come tali dai clienti – strategia di di erenziazione;

b) o rendo prodotti o servizi standard, prodotti però a un costo più basso – strategia
della leadership di costo;

c) o rendo una combinazione delle prime due opzioni – strategia ibrida del “best cost”.

A seconda dell’ampiezza del mercato servito, le strategie di cui sopra possono essere di
focalizzazione, ovvero essere basate sulla di erenziazione, sulla leadership di costo o sul
“best cost” cercando di soddisfare le esigenze di specifici segmenti di clientela o di
mercato. La descrizione delle strategie competitive è oggetto della Dispensa # 11, che
tratterà delle strategie a livello business.

Oltre a definire le strategie di posizionamento, il management deve stabilire la crescita


dell’impresa, ovvero la dimensione del business nel corso del tempo. Nella decisione circa
lo sviluppo dell’impresa, che può avvenire per linee interne o esterne, o nella decisione di
stabilizzare la crescita attraverso la riduzione degli investimenti, chi dirige l’azienda deve
dare risposta alle seguenti questioni di fondo: dove allocare le risorse per sostenere la
crescita; quali cambiamenti nell’attività aziendale sono necessari con la crescita prevista
e, allo stesso tempo, compatibili con gli obiettivi strategici; quale deve essere la velocità
di crescita dell’impresa.

Le strategie di crescita, di cui nella Dispensa #11 si o rirà rappresentazione, sono


strettamente collegate alle strategie competitive: solo se l’impresa persegue strategie
competitive di successo genera risorse, materiali e non, per sostenere con successo la
propria crescita.

Nel processo di valutazione dell’impresa assumono così importanza alcuni aspetti


strettamente legati alle decisioni strategiche e tattiche dell’impresa:

● gli obiettivi che l’impresa si pone per ogni attività (definita dalla combinazione tra
mercato e prodotto) in cui decide di competere;

● la definizione di una chiara strategia per ogni mercato/prodotto e la definizione


della corretta politica di prezzo;

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● la visione del mercato in termini di dimensione, crescita delle vendite, andamento
dei prezzi dei prodotti e delle materie prime, volatilità della domanda e dei prodotti,
stato di incertezza;

● la conoscenza, da parte del management, delle principali caratteristiche di natura


operativa, tecnologica, competitiva e normativa dei business in cui l’impresa è
attiva;

● la comprensione dei principali rischi e la preparazione di eventuali azioni tese a


mitigare i rischi.

Più tali elementi sono conosciuti dall’impresa, più è robusta la capacità dell’impresa di
operare con successo. Allo stesso tempo, la comprensione di tali fattori è di
fondamentale importanza per stabilire il futuro equilibrio dell’impresa dato che esso
dipende strettamente dagli obiettivi dell’impresa, dalla corrette scelte strategiche, dalle
condizioni di mercato, dalle caratteristiche operative e dal grado di rischio.

La strategia dell’impresa è così un elemento fondamentale nel determinare la crescita dei


ricavi, l’entità degli investimenti necessari per sostenere lo sviluppo aziendale e la
dimensione del fabbisogno finanziario.

La chiara visione strategica e, quindi, la bontà delle scelte strategiche compiute


dall’impresa influenzano la competitività dell’impresa e le sue performance economiche.
Quale conseguenza, l’impresa, che meglio definisce le proprie strategie di mercato,
prodotto e prezzo, eleva la sua flessibilità finanziaria, ovvero la capacità e la facilità di
raccogliere risorse finanziarie, e ra orza il suo vantaggio competitivo.

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #6

Strategia: I modelli teorici di riferimento e l’analisi SWOT

I modelli teorici di riferimento

La strategia, considerata come “arte nella gestione delle armi”, trae le sue origini
nell’Antica Grecia e in Asia intorno al VI-V secolo a.c. Il primo trattato sulla strategia è
considerato lo scritto del condottiero Sun Tzu, intitolato l’arte della guerra, in cui sono
descritti i principi alla base di una strategia di successo: meticolosa pianificazione,
determinazione di chiari obiettivi, disponibilità di risorse di qualità, conoscenza
dell’ambiente esterno e, infine, capacità di porre in atto la strategia.
Il passaggio dell’utilizzo della strategia dall’arte militare al mondo economico è però
molto più recente e risale agli anni sessanta quando la combinazione di tre elementi
determinò le condizioni ideali per l’introduzione del processo strategico nella gestione
d’impresa. I fattori alla base dello sviluppo della strategia aziendale furono la visione
illuminata di dirigenti di società multinazionali, prestigiose ricerche accademiche e la
forza propulsiva espressa dalla società di consulenza.
Proprio negli anni sessanta furono pubblicati i pionieristici lavori sullo strategic
management di Chandler (1962) e Anso (1965) e fu introdotto l’utilizzo di matrici e
modelli (quali la matrice BCG e la matrice General Electric/McKinsey, di cui si tratterà nella
Dispensa #10) che ancora oggi influenzano la pratica della strategia aziendale.
Dalla sua introduzione a oggi, lo sviluppo dello strategic management è stato continuo
anche se sovente frammentato.
Hoskisson e altri (1999) descrivono chiaramente la frammentazione e la poca linearità
dell’evoluzione degli studi strategici ricorrendo alla metafora del pendolo. Secondo gli

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autori, l’origine della gestione strategica è interna all’azienda come indicato negli anni
sessanta dalla corrente di pensiero della scuola di Harvard.
Successivamente gli studi del filone dell’Industrial Organization (IO) spostarono
l’attenzione verso il mercato. I modelli proposti dall’IO indicano che l’attrattività
dell’ambiente e la struttura del settore in cui l’impresa opera sono gli elementi che più
influenzano la capacità dell’impresa di generare buone performance (per un
approfondimento sul modello teorico in oggetto si rinvia al Box).
Le caratteristiche di mercato sono così il nucleo centrale su cui si sviluppano i lavori
dell’epoca: il paradigma S-C-P (Structure-Conduct-Performance: la struttura del mercato
determina la condotta dell’impresa che a sua volta determina la performance) proposto
da Bain (1956), le ricerche sui gruppi strategici e i noti lavori di Porter (1980, 1985) sulle
forze competitive e sulla determinazione delle tre strategie generiche (leadership di
costo, di erenziazione, e focalizzazione, per il cui approfondimento si rinvia alla Dispensa
#11)
A cavallo tra gli anni settanta e ottanta, l’attenzione della strategia tende nuovamente a
riportarsi verso l’azienda grazie all’influenza degli studi economici sui costi di transazione
(Williamson, 1975, 1985) e sulla teoria dei costi di agenzia (Jensen e Meckling, 1976;
Fama e Jensen, 1983).
L’oscillazione del pendolo verso l’impresa diviene ancora più netta negli anni novanta con
la di usione della resource-based view (Wernefelt, 1984, 1995), secondo la quale
l’impresa genera performance superiori a quelle dei suoi concorrenti quando dispone di
competenze interne che sono di valore, rare, di cilmente imitabili dai concorrenti e non
sostituibili (Barney, 1991). La presenza di competenze interne è la chiave dell’impresa per
ottenere il vantaggio competitivo sostenibile nel tempo.
Qualunque sia l’inclinazione del pendolo, ciò che appare chiaro è l’esistenza di una forte
correlazione tra la capacità dell’impresa di generare performance superiori alla media e la
sua capacità di formulare, prima, e implementare, poi, la strategia di successo.

Box: Il modello dell’Industrial Organization(IO)


Il modello dell’Industrial Organization prende le mosse da due principi di fondo:
- la strategia è suggerita dall’ambiente esterno (quali opportunità o re l’ambiente
esterno?);
- l’azienda sviluppa competenze interne richieste dall’ambiente esterno (cosa può fare
l’azienda per sfruttare le opportunità o erte dall’ambiente esterno?).

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Alla base del modello vi sono le seguenti assunzioni:
a) l’ambiente esterno sviluppa pressioni e vincoli che determinano le strategie;
b) molte aziende che competono nel medesimo settore controllano risorse strategiche
simili e perseguono strategie simili;
c) le risorse utilizzate per implementare le strategie presentano un grado di elevata
mobilità tra le imprese;
d) i responsabili delle decisioni aziendali perseguono l’interesse dell’azienda, come è
evidenziato dai loro comportamenti indirizzati alla massimizzazione dei profitti;
e) il modello I/O è focalizzato sulla struttura di mercato basata sul paradigma S-C-P
(Structure-Conduct-Performance) - Mason (1939), Bain (1952, 1956), Porter (1980).
Il modello prende avvio con lo studio dell’ambiente esterno e, in particolare, del settore di
appartenenza (quali barriere all’entrata? quale grado di concentrazione del settore dato
che settori frammentati hanno basse barriere all’entrata e prodotti scarsamente
di erenziati).
E ettuato lo studio dell’ambiente, viene individuato un settore attrattivo. Per settore
attrattivo si intende quel settore che ha elevate capacità potenziali di generare
rendimenti superiori ai rendimenti medi di altri settori economici. Ci si riferisce, quindi, ai
settori che hanno caratteristiche strutturali che suggeriscono buone possibilità di
ottenere rendimenti sopra la media.
Il passo successivo è la formulazione della strategia che conduce a identificare la strategia
adatta per generare rendimenti sopra la media.
Lo sviluppo o l’acquisizione all’esterno degli assets e delle competenze chiave dell’impresa
(ovvero delle risorse materiali, immateriali e finanziarie) è l’attività successiva che è
propedeutica all’implementazione della strategia, ovvero all’esecuzione delle azioni
strategiche e tattiche definite in sede di formulazione della strategia. In tale ambito,
secondo il modello IO l’impresa deve utilizzare i suoi punti di forza dell’azienda (gli assets
e le competenze sviluppate o acquisite all’esterno).
Se i dettami del modello IO sono correttamente eseguiti, l’impresa sarà in grado di
ottenere rendimenti superiori ai rendimenti medi ottenuti dalla concorrenza.

Le caratteristiche e le finalità dell’analisi SWOT

L’analisi SWOT è uno strumento largamente utilizzato nell’ambito del processo strategico
così come testimoniato dalla Figura 6.1.

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Figura 6.1. L’importanza dell’analisi SWOT nell’ambito del processo strategico

L’analisi SWOT (o analisi di situazione) individua le opportunità, le minacce, i punti di forza


e i punti di debolezza che influenzano le performance dell’impresa. La composizione delle
prime lettere dei vocaboli in lingua inglese (Strenghts, Weaknesses, Opportunities,
Threats) compongono l’acronimo (SWOT) dell’analisi sviluppata intorno agli anni ’60 da
alcuni docenti della Harvard University e poi applicata da numerose società. I quattro
elementi costituiscono i fattori strategici che influenzano la vita e l’operatività di ogni
singola impresa.

La SWOT analysis conduce non solo all’identificazione delle competenze distintive di ogni
impresa, ma pure all’individuazione delle opportunità e delle minacce di mercato. I punti di
forza (strenghts) sono le positive caratteristiche interne dell’impresa su cui fare leva per
raggiungere gli obiettivi strategici. I punti di debolezza (weaknesses) sono invece le
caratteristiche interne che possono frenare o inibire le performance dell’impresa.

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Esempi di possibili punti di forza e di debolezza sono di seguito rappresentati.
Area funzionale Descrizione
Management ● Qualità ed esperienza del management
● Struttura organizzativa
● Sistema informativo e di controllo
● Livello delle deleghe e loro e cacia
Marketing ● Marchio
● Canali distributivi
● Soddisfazione del cliente
● Qualità del prodotto
Risorse umane ● Competenze dei dipendenti
● Soddisfazione della forza lavoro
● Produttività
● Senso di appartenenza all’azienda (lealtà e fedeltà)
Finanza ● Margini di profitto
● Grado di indebitamento
● Rotazione del magazzino
● Generazione di flussi di cassa
Produzione ● Obsolescenza degli impianti
● Funzionalità degli stabilimenti
● Processo di acquisto;
● Controllo di qualità
Ricerca e sviluppo ● Capacità di innovazione (di prodotto, tecnologica, …)
● Programmi di ricerca
● Frequenza di lancio di nuovi prodotti
● Qualità della ricerca applicata
La determinazione dei punti di forza e di debolezza deriva dall’analisi dell’organizzazione
aziendale e delle sue principali aree funzionali e dal successivo confronto con imprese
simili.

Più precisamente, l’analisi SWOT sintetizza gli elementi strategici in una generale visione
(cfr. Figure 2 e 3).

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Figura 6.2 L’analisi SWOT

Figura 6.3. Un esempio di analisi SWOT

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Tra gli strumenti più di usi nel definire i punti di forza e di debolezza si segnala l’analisi
della catena del valore (value chain analysis),1 un modello sviluppato dal prof. Michael
Porter della Harvard University (1980, 1985) in cui le attività di ogni organizzazione sono
distinte in primarie e di supporto al fine di evidenziare in quali aree funzionali risiedono le
competenze distintive dell’impresa e dove invece sono presenti problemi e/o ine cienze.

Le opportunità (opportunities) sono le caratteristiche dell’ambiente esterno che possono


potenzialmente favorire il raggiungimento o il superamento degli obiettivi strategici.

Parimenti, le minacce (threats) sono i fattori esterni che ne possono limitare o impedire la
realizzazione. Le informazioni sui fattori di successo esterni sono derivate dall’analisi
dell’ambiente generale nelle sue principali componenti (aspetti socio-culturali, economici,
tecnologici, politico-legali), dall’analisi del settore economico in cui l’impresa (dimensione,
tasso di crescita, …) e dall’analisi del comportamento degli attori con cui l’impresa si
confronta sul mercato (clienti, fornitori, concorrenti).

Tra gli strumenti più di usi nel definire le opportunità e minacce presenti in un dato
settore economico si segnala il modello delle cinque forze, anch’esso ideato dal prof.
Michael Porter della Harvard University.

Rinviando alla Dispensa#9 la più ampia descrizione del contributo di Porter in tema di
analisi del mercato, si segnala in questa sede che il modello in oggetto esamina in modo
strutturato l’attrattività del mercato e spiega le di erenti performance dei settori
economici: esso contribuisce alla migliore comprensione delle caratteristiche del mercato
perché estende l’esame della pressione competitiva non solo alla rivalità tra i concorrenti
attuali, ma pure all’esistenza di prodotti sostitutivi, alla possibile entrata di nuovi
potenziali concorrenti e al potere contrattuale dell’azienda nei confronti di clienti e
fornitori.

Nel mercato in cui l’impresa opera, la presenza di opportunità superiori alle minacce
ra orza la valutazione sulle prospettive di sviluppo dell’impresa. Più precisamente, la
valutazione sarà tanto più positiva quanto più l’impresa dimostra di sapere cogliere le
opportunità che il mercato o re e di sapere mitigare/attenuare le eventuali minacce
presenti.

1
La Dispensa #8 sarà dedicata alla descrizione del modello della catena del valore.

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Analisi SWOT, strategia competitiva e settore (cenni e rinvii)

L’analisi SWOT è utile per accompagnare la scelta dell’impresa nel definire la sua strategia
competitiva (cfr. Dispensa #11) nel settore/mercato in cui opera2. Infatti, identificare e
definire in quale settore e in quale mercati l’impresa opera è essenziale per capire la bontà
della sua strategia competitiva.

Le performance economiche dell’impresa sono il risultato di due distinti fattori:

● la struttura del settore che definisce le “regole” della competizione in un dato


periodo;

● la posizione competitiva dell’impresa che indica su quali attività poggia il vantaggio


competitivo aziendale

La strategia è di successo se il settore in cui l’impresa opera è e resta attrattivo e se la


posizione competitiva è e resta forte. I temi ora accennati verranno ripresi
compiutamente nelle successive dispense (#7-11).

2
Il settore è l’area omogenea per tecnologie e fattori di successo; gruppi di clienti e bisogni serviti, mentre il mercato è
l’area di domanda omogenea per prodotti relativamente sostituibili, provenienti anche da settori diversi.

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Dispensa #6

L’Analisi esterna (l’analisi del mercato)

L’analisi dell’ambiente esterno

L’analisi dell’ambiente esterno all’impresa ha il compito di individuare le opportunità e le


minacce presenti nel mercato/settore in cui l’impresa opera. In altri termini, studiando
l’ambiente esterno l’azienda identifica cosa dovrebbe fare.

L’analisi dell’ambiente esterno, che si articola nell’analisi dell’ambiente generale,


nell’analisi del settore e nell’analisi dei concorrenti, è un continuo processo che si sviluppa
nelle seguenti fasi:

● Esame: Identificare i primi segnali del cambiamento e di nuovi trend nell’ambiente

● Monitoraggio: Cogliere il significato attraverso una costante osservazione dei


fenomeni in atto

● Previsione: Sviluppare proiezioni sui risultati futuri sulla base di quanto monitorato

● Valutazione: Determinare il tempo e l’importanza del cambiamento e dei trend per


la strategia e il management aziendale

Di seguito, si rappresenta schematicamente il framework concettuale dell’analisi


dell’ambiente esterno.

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Figura 7.1: Il framework concettuale dell’analisi esterna

L’analisi dell’ambiente generale

Il ricorso all’analisi dell’ambiente generale è un approccio sistematico all’analisi e


all’implementazione del cambiamento e viene eseguito per analizzare l’ ambiente sia in
termini microeconomici sia in termini macroeconomici. Lo studio dei fattori globali (o dei
valori), sociologici, demografici, tecnologici, economici, e politico-legali – descritti nella
Figura seguente - permette ai manager dell’impresa di identificare i trend in atto e di
rivedere le stime sulle performance aziendali.

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Figura 7.2: L’analisi dell’ambiente generale

Le variabili di natura generale che vengono prese in esame possono essere così
esemplificate:

● Fattori globali: importanti eventi politici, globalizzazione dei mercati, nuovi paesi
industrializzati, di erenti attributi culturali e istituzionali

● Fattori demografici: popolazione, età, distribuzione geografica, mix etnico

● Fattori sociologici (socio-culturali): forza lavoro femminile, diversità della forza


lavoro, atteggiamento verso la qualità della vita, preoccupazione per l’ambiente,
cambiamenti delle preferenze di prodotti e servizi (comportamenti di acquisto)

● Fattori politico/legali: leggi antitrust, normativa fiscale, deregulation, stabilità del


paese

● Fattori economici: crescita del PIL, tasso di inflazione, tasso di interesse, bilancia
commerciale, deficit o surplus di budget, livello di risparmio

● Fattori tecnologici: innovazioni di prodotto, applicazione di tecnologia, nuove


tecnologie per la comunicazione

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L’analisi dell’ambiente generale: la matrice di Lederman

La matrice di Lederman è uno strumento volto ad analizzare l’ambiente generale,


indicando le variabili più significative presenti nell’ambiente che circonda l’impresa e
valutando il potenziale impatto sull’azienda stessa.

Il modello di Lederman è una matrice che vede sulla dimensione verticale la probabilità
che un determinato fenomeno si verifichi, stabilendone l’entità (bassa, media, alta) e su
quella orizzontale l’impatto che la variabile individuata può avere sull’azienda (basso,
medio, alto).

Figura 7.3: La matrice di Lederman

La matrice dà origine a nove caselle, date dall’incrocio tra le due dimensioni prese in
esame, che a loro volta individuano tre aree di criticità:

● alta criticità: è l’area caratterizzata da un’elevata probabilità che il fenomeno si


verifichi e da un elevato impatto sull’azienda, denotando così una certa rilevanza di
alcuni fenomeni quali, per esempio, l’insorgere di nuove tecnologie; è l’area che
richiede la massima attenzione da parte del management dell’impresa;

● media criticità: è l’area caratterizzata da valori medi di entrambe le dimensioni che


richiedono al management di porre attenzione ai fenomeni ivi ricompresi;

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● bassa criticità: è l’area relativamente più tranquilla per l’impresa dato che i
fenomeni ivi compresi hanno una modesta probabilità di verificarsi e in ogni caso, il
loro impatto sull’azienda è modesto.

L’analisi del settore: il modello delle cinque forze

L’analisi del settore esamina l’insieme di elementi che influenzano direttamente l’azienda
e le sue strategie e le sue azioni competitive. L’interazione tra i diversi fattori determina il
profitto potenziale di un settore industriale (e quindi la sua attrattività).

Le metodologie più di use per l’analisi del settore sono il modello delle cinque forze
(Porter, 1980) e il modello del ciclo di vita del settore

Il modello delle cinque forze, ideato da Michael Porter, si basa sul paradigma SCP
(Struttura – Condotta– Performance) elaborato sulle ricerche di Mason (1939) e Bain
(1951, 1956), docenti ad Harvard, che prevede che la struttura del mercato determina la
condotta dell’impresa che ne determina a sua volta le sue performance.

Il modello di Porter cerca di identificare i fattori che influenzano la redditività di lungo


termine dell’industria. Tale ricerca si fonda sui seguenti principi-chiave: a) identificare gli
attuali e i potenziali concorrenti e individuare i loro fornitori; b) comprendere che
l’ambiente in cui l’impresa opera è competitivo e, quindi, è necessario condurre analisi sui
concorrenti; c) riconoscere che venditori (suppliers) e compratori (buyers) possono
divenire concorrenti; d) riconoscere che i produttori di potenziali prodotti sostitutivi
possono diventare competitori.

Il modello delle cinque forze esamina in modo strutturato l’attrattività del mercato e
spiega le di erenti performance dei settori economici: esso contribuisce alla migliore
comprensione delle caratteristiche del mercato perché estende l’esame della pressione
competitiva non solo alla rivalità tra i concorrenti attuali, ma pure all’esistenza di prodotti
sostitutivi, alla possibile entrata di nuovi potenziali concorrenti e al potere contrattuale
dell’azienda nei confronti di clienti e fornitori (cfr. Figura 4).

La capacità competitiva dell’impresa è misurata attraverso due dimensioni: la prima


riguarda la relazione verticale presente sul mercato (fornitori, clienti, concorrenti), la
seconda interessa il cambiamento (nuovi entranti, prodotti sostitutivi).

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Figura 7.4: Il modello delle cinque forze

Le forze competitive sono considerate opportunità quando sono deboli: per esempio, se
l’intensità della concorrenza fosse bassa, l’impresa, a parità delle altre condizioni, ha
maggiori possibilità di generare profitti più alti.

Viceversa, le forze competitive sono minacce quando sono forti: per esempio, se fossero
elevate le possibilità di ingresso sul mercato di nuovi concorrenti (perché le barriere di
entrata sono basse), l’impresa, a parità delle altre condizioni, ha minori possibilità di
generare alti profitti.

Un’esemplificazione delle forze competitive è di seguito rappresentata. La descrizione


considera le forze competitive deboli e, quindi, come se fossero delle opportunità.
Diventano minacce se le condizioni muovono in direzione opposta a quella descritta.

Forze Descrizione della forza come opportunità


Potere contrattuale dei L’impresa ha un forte potere contrattuale nei
clienti confronti del cliente quando: il numero di clienti
presenti sul mercato è elevato; i clienti acquistano
bassi volumi di quantità pro-capite; i clienti
cercano prodotti specifici (non standard); il
margine operativo dei clienti è alto (minore
pressione sui costi di acquisto); i clienti faticano a
cambiare fornitore.

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Potere contrattuale dei L’impresa ha un forte potere contrattuale nei
fornitori confronti del fornitore quando: il numero di
fornitori presenti sul mercato è elevato; esistono
sul mercato più prodotti/servizi sostitutivi; i costi
di sostituzione del fornitore sono bassi; i prodotti
acquistati sono standard; il peso degli acquisti
sulle vendite dei fornitori è alto.
Intensità della L’intensità della concorrenza è più debole quando:
concorrenza il tasso di crescita del mercato è robusto; i costi
fissi sono contenuti; esiste una forte
di erenziazione di prodotto; il numero di
concorrenti è limitato; esistono basse barriere
all’uscita (i.e. nel caso in cui i profitti del settore
fossero bassi, i concorrenti possono uscire dal
mercato senza perdere gli investimenti e ettuati).
Nuovi entranti/ Barriere Sul mercato vi sono alte barriere di entrata, e
di entrata quindi minori possibilità di ingresso di nuovi
concorrenti, quando: vi sono alte economie di
scala; l’intensità di capitale del settore è elevata;
la di erenziazione del prodotto è alta (e quindi
cresce l’importanza della fidelizzazione del
cliente); i costi di transazione sono alti; l’accesso ai
canali distributivi non è semplice; vi sono norme e
regolamenti restrittivi per l’esercizio dell’attività;
chi opera nel settore possiede asset (know how,
brevetti, …) di cilmente replicabili nel breve
termine.
Prodotti sostitutivi La minaccia di prodotti sostitutivi è bassa quando:
è di cile o rire sul mercato prodotti/servizi che
possano sostituire quelli esistenti; l’attività di
alcuni stakeholders (e.g. sindacati, associazione di
consumatori, associazioni ambientalistiche) è
modesta e, quindi, non influisce sulla struttura dei
costi e la redditività del settore.
Per meglio comprendere il funzionamento del modello, di seguito si presenta un esempio
di applicazione nell’ambito del settore dell’abbigliamento sportivo.

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Figura 7.5: L’applicazione del modello al settore dell’abbigliamento sportivo

Il corretto utilizzo del modello permette non solo di fare analisi, ma di capire le future
implicazioni strategiche per l’impresa contribuendo a dare una risposta ai seguenti
quesiti: è possibile cambiare la relazione con i fornitori? è possibile costruire una nuova
relazione con i clienti? quali sono i fattori di successo e come costruirli? come cambia la
natura della competizione?

La facilità di applicazione del modello ha contribuito alla sua di usione esaltando il


collegamento con le tre strategie generiche proposte da Porter (leadership di costo,
di erenziazione, focalizzazione) di cui in seguito si o rirà un breve cenno.

Nonostante il suo intenso utilizzo, il modello di Porter non è immune da difetti. Per i suoi
critici, il modello è innanzitutto statico e ignora l’innovazione. La focalizzazione sullo
status quo spinge a concentrarsi su temi quali la costruzione di barriere e a fare sì che il
modello sia reattivo e non proattivo (dato che ogni forza tende a mantenere il suo ruolo
nel modello). Inoltre, il modello tende a ignorare la forza governativa (e.g. Legge
Antitrust) e la qualità delle risorse umane. Infine, esso pone l’attenzione sulla struttura
dell’industria più che sulla singola impresa. Tuttavia, l’innovazione crea cambiamenti nella
struttura del settore, alterando l’ambiente competitivo, e la sua struttura dell’industria
non può spiegare completamente le di erenze di performance tra le società.

L’analisi del settore: il modello del ciclo di vita

Il modello del ciclo di vita è la rappresentazione grafica dell’andamento temporale di un


settore, dal momento della sua nascita fino all’eventuale declino. Tale modello, che può

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essere applicato oltre che a un settore industriale anche a un prodotto, costituisce uno
schema utile per agganciare tra loro la visione prospettica del mercato e del settore, con i
comportamenti aziendali e lo sviluppo delle strategie nel corso del tempo.

Una volta individuata la fase in cui si trova il settore (introduzione, sviluppo, maturità,
declino) e, quindi, comprese le caratteristiche di fondo del settore in termini di clienti,
concorrenti, crescita e profitti (cfr. Figura 6) è possibile formulare per l’impresa la
strategia più appropriata per competere con successo sul mercato. In altri termini, dalla
collocazione di ogni settore nella fase del ciclo di vita corretta dipende l'adozione della
strategia più idonea.

Come per il modello di Porter, anche il modello del ciclo di vita presenta alcuni limiti che
possono essere così sintetizzati:

● è di cile definire con precisione le fasi e la loro durata;


● il ciclo non è sempre uguale ed è influenzato dall’azione delle società;
● la natura della competizione può essere di erente nelle diverse fasi;
● i settori in declino possono ringiovanire grazie a innovazioni e cambiamenti sociali.

Figura 7.6: Il modello del ciclo di vita

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L’analisi dell’ambiente competitivo

L’analisi dell’ambiente competitivo si basa sulla raccolta (etica) di informazioni e di dati


sugli obiettivi, sulle strategie, sulle assunzioni, e sulle capacità dei concorrenti.

Attraverso l’analisi della concorrenza, l’impresa cerca di capire (cfr. Figura 7):

● cosa guida i concorrenti (quali sono i loro obiettivi futuri?);

● cosa stanno facendo i concorrenti (quali sono le loro strategie correnti?);

● cosa pensano i concorrenti del futuro andamento del settore (quali sono le loro
assunzioni?);

● cosa i concorrenti sono capaci di fare (quali sono le loro competenze?).

La risposta alle domande di cui sopra consente all’impresa di capire cosa faranno i suoi
concorrenti nel futuro, dove manterrà un vantaggio competitivo nei confronti dei
concorrenti e, infine, come potrà cambiare la sua relazione con i principali competitor.Tra
gli strumenti più di usi per analizzare e classificare le strategie delle imprese che operano
in un settore, per comprendere i rapporti di rivalità esistenti e per fornire indicazioni sulla
capacità concorrenziale e sulle leve strategiche che possono essere utilizzate, si segnala l’
approccio dei gruppi strategici.

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Figura 7.7: L’analisi dei concorrenti

I gruppi strategici sono classificati nel seguente modo:

● all’interno di ciascun settore esistono più gruppi strategici, ciascuno dei quali
riunisce imprese simili tra loro, ma di erenti da quelle appartenenti ad altri gruppi
strategici;

● all’interno di ciascun gruppo strategico le imprese sono in stretta concorrenza


(rivali), perché usano le stesse leve competitive.

L’appartenenza ad uno stesso gruppo strategico dipende dalla strategia che ciascuna
azienda persegue, e in particolare dai segmenti di mercato prescelti, dall’ampiezza della
gamma o erta, dal livello dei prezzi, dalla qualità del prodotto/servizio, dall’immagine di
marca, dalla spesa pubblicitaria e dai canali di distribuzione. La possibilità di passare da
un gruppo strategico a un altro è ostacolata dalle barriere alla mobilità come indicato
nella Figura sottostante, che rappresenta l’applicazione dei gruppi strategici al caso degli
yogurt.

Figura 7.8: L’individuazione dei gruppi strategici nel settore caseario (yogurt)

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Autunno 2024
Dispensa #8

L’Analisi Interna e il Vantaggio Competitivo

L’analisi dell’ambiente interno

Studiando l’ambiente interno, l’impresa identifica cosa può fare sulla base delle risorse
uniche, delle capacità e, quindi, delle competenze chiave di cui dispone. In altri termini,
l’impresa capisce come può costruire il suo vantaggio competitivo sostenibile.

Attraverso l’analisi interna, l’impresa cerca di dare una risposta alle seguenti domande:

● Come gestiamo le nostre attuali competenze mentre contemporaneamente ne


sviluppiamo delle nuove?

● Come assembliamo gruppi di risorse, capacità e competenze per creare valore per i
nostri clienti?

● Quanto rapidamente comprendiamo il cambiamento?

● Come creiamo valore?

L’analisi interna cerca così di scoprire quali sono le competenze chiave dell’impresa che
sono, a loro volta, derivate dalle risorse, tangibili e intangibili, e dalle capacità dell’impresa
(cfr. Figura 1).

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Figura 1: Le componenti dell’analisi interna

Le risorse sono le attività, materiali e immateriali, a disposizione dell’azienda incluse le


persone e il valore del marchio. Le risorse sono gli input del processo di produzione
dell’impresa – vale a dire impianti, capacità del personale, marchio, denaro e bravi
manager.

Le capacità diventano importanti quando danno vita a uniche combinazioni che creano le
competenze–chiave che hanno valore strategico e contribuiscono alla creazione del
vantaggio competitivo. Le capacità sono ciò che l’impresa fa e rappresentano l’abilità
dell’impresa di integrare le singole risorse per raggiungere l’obiettivo desiderato.

Le core competencies sono le risorse e le capacità che fungono da volano per la


costruzione del vantaggio competitivo. Le competenze chiave distinguono l’azienda
nell’arena competitiva e la rendono unica. La società di consulenza McKinsey raccomanda
l’utilizzo di tre/quattro competenze nell’identificazione delle azioni strategiche.

Per diventare competenza-chiave e, quindi, elemento di supporto del vantaggio


competitivo, una capacità dell’impresa deve soddisfare quattro requisiti:

● avere valore, ovvero consentire all’impresa di neutralizzare le minacce o cogliere le


opportunità che il mercato o re;

● essere rara, ovvero essere possedute da pochi altri;

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● essere costosa da imitare, ovvero essere replicata da altri con di coltà per via delle
uniche condizioni storiche e della sua complessità;

● non essere facilmente sostituibile, ovvero non avere equivalenti strategici per
essere invisibile ai concorrenti ed essere legata alla specifica conoscenza
dell’impresa.

Figura 2: Le implicazioni sulle performance dell’impresa

Il vantaggio competitivo dell’impresa

Il vantaggio competitivo di un'impresa è un termine divenuto di primaria importanza nella


gestione d’impresa grazie ai contributi di Michael Porter. Esso può definirsi come ciò che
costituisce la base delle performance superiori registrate dall'impresa, solitamente in
termini di redditività, rispetto alla media delle sue concorrenti dirette nel settore di
riferimento.

Un aspetto fondamentale per l’impresa è la sua posizione relativa di un’azienda all’interno


del settore di appartenenza. “Può infatti accadere che imprese che operano in settori
molto attrattivi siano collocate male, così da vedere compromessa la capacità di produrre
reddito, oppure che imprese in settori poveri manifestino eccellenti risultati, grazie alla

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loro vantaggiosa collocazione strategica relativa. La posizione in cui l’impresa si colloca,
quindi, determina la sua redditività, che potrà essere superiore o inferiore al tasso medio
di profitto del settore. Se l’impresa riesce a conseguire un profitto maggiore rispetto ai
concorrenti, ciò avviene in forza di un vantaggio competitivo posseduto: il rapporto con la
concorrenza fornisce gli spunti per la determinazione del vantaggio competitivo, ma al
tempo stesso produce le condizioni che contribuiscono a eroderlo”.1

Il vantaggio competitivo è così la capacità dell’azienda di ottenere performance migliori


rispetto a quelle dei concorrenti (avere più alti profitti).

Nel corso degli anni sono state proposte diverse definizioni di vantaggio competitivo.
Così, ad esempio, Robert Grant lo definisce come la "capacità dell’impresa di superare gli
avversari nel raggiungimento del suo obiettivo primario: la redditività" (Grant, 1999,
p.218); mentre, per Enrico Valdani, è "la capacità distintiva" (o competenza distintiva) "di
un'impresa di presidiare, sviluppare e difendere nel tempo, con maggiore intensità dei
rivali, una capacità market driving o una risorsa critica che possono divenire fattori critici
di successo" (Valdani, 2003).

Porter spiega l’origine del vantaggio competitivo con il concetto di valore. La fonte del
vantaggio competitivo è la creazione di valore per i clienti: «il vantaggio competitivo nasce
fondamentalmente dal valore che un’azienda è in grado di creare per i suoi acquirenti, che
fornisca risultati superiori alla spesa sostenuta dall’impresa per crearlo. Il valore è quello
che gli acquirenti sono disposti a pagare: un valore superiore deriva dunque dall’o rire
prezzi più bassi della concorrenza per vantaggi equivalenti, o dal fornire vantaggi unici che
controbilancino abbondantemente un prezzo più alto».

La capacità dell’impresa di sostenere nel tempo il proprio vantaggio competitivo deriva


dalla generazione di più alti profitti ed è funzione:

● del tasso di obsolescenza delle competenze-chiave dovuto ai cambiamenti


ambientali;

● della disponibilità di sostituti delle competenze-chiave;

● dell’imitabilità delle competenze chiave.

1
P. Parini (1996), Vantaggio competitivo e controllo strategico, Giappichelli, Torino, p. 43.

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Le fondamenta del vantaggio competitivo

Il vantaggio competitivo dell’impresa si fonda su quattro pilastri: l’e cienza operativa, la


qualità dei prodotti/servizi, la capacità di innovazione, la velocità di risposta ai clienti.

La superiore e cienza operativa produce riflessi positivi sui costi aziendali. Per molte
imprese, l’e cienza produttiva (volumi di vendita per dipendente) è un elemento chiave. Il
miglioramento dell’e cienza operativa richiede strategia, organizzazione e controllo così
come la corretta implementazione di programmi produttivi e operativi. L’e cienza è un
elemento critico soprattutto per le imprese che seguono una strategia di “leadership di
costo”, ma rimane importante anche per le altre imprese.

La superiore qualità dei prodotti/servizi o erti produce un positivo impatto sui profitti
dell’azienda per due ragioni: a) favorisce l’incremento dei prezzi di vendita per il fatto che il
mercato percepisce la più alta qualità del prodotto/servizio; b) fa crescere la produttività
perché riduce i costi di ri-lavorazione e il numero di rese dei prodotti determinando così
una riduzione dei costi operativi. Più alti prezzi di vendita e più bassi costi operativi
conducono a più alti profitti.

La superiore capacità di innovazione spinge al rialzo i prezzi di vendita grazie alla


di erenziazione del prodotto/servizio o determina la riduzione dei costi grazie ai migliori
processi di produzione e vendita. L’innovazione riguarda non solo il miglioramento del
prodotto e dei processi operativi, ma anche il perfezionamento della struttura
organizzativa, della strategia, dei sistemi di implementazione e controllo.

La superiore capacità di servire il cliente è funzione della qualità del prodotto/servizio,


dell’innovazione nel design e nell’assistenza al cliente pre e post-vendita ed è misurata dal
grado di soddisfazione del cliente, dalla velocità di risposta ai bisogni della clientela, dalla
rapidità di adattamento al cambiamento della domanda. Essa contribuisce
all’innalzamento dei prezzi.

La combinazione degli e etti prodotti dai pilastri su cui si fonda il vantaggio competitivo
dell’impresa eleva la capacità di creare valore e, quindi, ne ra orza la capacità di reddito.
L’impresa che fonda il vantaggio competitivo su robusti pilastri ha un posizionamento più
favorevole rispetto all’impresa che non ha un chiaro vantaggio competitivo o che non
riesce a sostenere nel tempo il suo vantaggio rispetto ai concorrenti.

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Figura 3: I building blocks del vantaggio competitivo

La catena del valore

La determinazione dei punti di forza e di debolezza deriva dall’analisi dell’organizzazione


aziendale e delle sue principali aree funzionali e dal successivo confronto con imprese
simili.

Tra gli strumenti più di usi nel definire i punti di forza e di debolezza si segnala l’analisi
della catena del valore (value chain analysis), un modello sviluppato da Michael Porter
della Harvard University (1980, 1985) in cui le attività di ogni organizzazione sono distinte
in primarie e di supporto al fine di evidenziare in quali aree funzionali risiedono le
competenze distintive dell’impresa e dove invece sono presenti problemi e/o ine cienze.

La catena del valore visualizza il valore totale e comprende due elementi (cfr. Figura 4): le
attività generatrici del valore e il margine. Le prime sono costituite da tutte quelle attività
che vengono svolte nell’impresa per progettare, produrre, vendere, consegnare e assistere
i clienti dopo l’acquisto del prodotto; sono definite da Porter come i blocchi costituitivi con
i quali l’impresa crea un prodotto valido per i suoi compratori. Il margine è la di erenza tra

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il valore totale e il costo complessivo che l’impresa sostiene per eseguire le attività
generatrici del valore.

Più precisamente, secondo questo modello un'organizzazione è vista come un insieme di


nove processi, di cui cinque primari e quattro di supporto.

Figura 4: La catena del valore

Le attività primarie sono quelle che direttamente contribuiscono alla creazione


dell'output (prodotti e servizi) di un'organizzazione e sono:

● Logistica in entrata: comprende tutte quelle attività di gestione dei flussi di beni
materiali all'interno dell'organizzazione.

● Attività operative: attività di produzione di beni e/o servizi.

● Logistica in uscita: comprende quelle attività di gestione dei flussi di beni materiali
all'esterno dell'organizzazione.

● Marketing e vendite: attività di promozione del prodotto o servizio nei mercati e


gestione del processo di vendita.

● Assistenza al cliente e servizi: tutte quelle attività post-vendita che sono di supporto al
cliente (ad es. l'assistenza tecnica).

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Le attività di supporto sono quelle che non contribuiscono direttamente alla creazione
dell'output, ma che sono necessarie perché quest'ultimo sia prodotto. Esse interessano le
seguenti funzioni aziendali:

● Approvvigionamenti: l'insieme di tutte quelle attività preposte all'acquisto delle


risorse necessarie alla produzione dell'output e al funzionamento dell' organizzazione.

● Gestione delle risorse umane: ricerca, selezione, assunzione, addestramento,


formazione, aggiornamento, sviluppo, mobilità, retribuzione, sistemi premianti,
negoziazione sindacale e contrattuale, etc.

● Sviluppo delle tecnologie: tutte quelle attività finalizzate al miglioramento del


prodotto e dei processi. Queste attività vengono in genere identificate con il processo
R&D (Research and Development).

● Attività infrastrutturali: tutte le altre attività quali pianificazione, contabilità


finanziaria, organizzazione, informatica, a ari legali, direzione generale, etc.

Il modello so re di alcune limitazioni: esso si adatta prevalentemente a grandi


organizzazioni che trattano la produzione di beni. Quindi, non si adatta bene alle PMI
(Piccole e Medie Imprese) e alle organizzazioni che trattano prevalentemente servizi. Ciò
nonostante esso costituisce un valido spunto per l'analisi dei processi di
un'organizzazione.

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Dispensa #9

Missioni e Obiettivi Strategici

L’analisi SWOT al lavoro

Dopo avere appreso il processo di pianificazione strategica e avere conosciuto i modelli e


gli strumenti utili per l’analisi dell’ambiente esterno e interno dell’impresa, occorre capire
come l’impresa può/deve determinare la sua attuale situazione anche alla luce delle
informazioni raccolte nella fase di analisi.

In pratica, il management deve comprendere: dove sta andando l’impresa? dove si trova?
quali scelte sta compiendo? su quali informazioni basa le sue scelte (revisione dei dati
storici, analisi dei punti di forza e di debolezza, analisi delle opportunità e minacce di
mercato, analisi della concorrenza e dei trend in atto)?

Come oramai noto, al cuore dell’analisi esterna e interna vi sta la necessità di meglio
capire cosa sta succedendo (dentro e fuori l’azienda) per trovare le giuste contromosse.

Prima di dare vita al vero e proprio piano d’impresa, è fondamentale trovare il grado di
ridondanza o di coerenza con:

● Cosa l’azienda vuole raggiungere (Missione)

● Cosa è capace di fare (Forze e debolezze)

● Cosa è richiesto o possibile fare (Opportunità e minacce)

Se non c’è “overlap” tra questi tre elementi, allora è possibile sviluppare il formale piano
strategico.

Per esempio, si supponga che l’impresa abbia la seguente missione: “Vogliamo essere
leader nel mercato dell’abbigliamento sportivo”. Tuttavia, la mancanza di risorse
finanziarie o la presenza di una forte concorrenza possono precludere il raggiungimento

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della missione. In questo caso, l’azienda deve tornare indietro e trovare la giusta coerenza
tra missione ed elementi della SWOT prima di procedere allo sviluppo del piano.

Per capire come l’analisi SWOT lavora, si presenta una sua possibile applicazione.

Si immagini che i risultati dell’analisi SWOT siano i seguenti:

Punti di forza: Qualità dei prodotti, Buona fedeltà del cliente. E cienza della logistica.

Punti di debolezza: Management poco innovatore. Lieve erosione delle quote di mercato
per azione aggressiva dei concorrenti. Necessità di ra orzare la dotazione di mezzi
finanziari (non di natura debitoria).

Opportunità e minacce: I clienti chiedono servizi più personalizzati in più aree – lancio di
prodotti, post-vendita. Le aziende più grandi hanno maggiori risorse per lanciare
campagne pubblicitarie. I nuovi canali cambiano le modalità di distribuzione dei prodotti.

Dopo avere stilato l’elenco delle variabili più significative, la combinazione delle diverse
dimensioni dà origine a quattro tipologie di strategie così come rappresentato nella
Figura sottostante.

Figura 1: La matrice TOWS (Threats, Opportunities, Weaknesses, Strenghts)

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L’applicazione dell’analisi SWOT è possibile anche per imprese di minore dimensione. A
guisa di esempio, si riportano i risultati della Swot Analysis realizzata per un centro
sportivo (cfr. Figura 2).

Figura 2: L’applicazione dell’analisi SWOT a un centro sportivo

Fonte: Elio Palma (2005), materiale didattico Unimol

La visione e la missione aziendale

Il piano d’impresa muove dalla missione per sviluppare un set di obiettivi strategici che
colgano i principali fattori di successo che caratterizzeranno il futuro. Sebbene questi
siano le principali determinanti degli obiettivi strategici, occorre considerare anche questi
elementi:

● Forze, Debolezze, Opportunità, Minacce (vedi SWOT analysis).

● Risorse disponibili: il piano strategico si sviluppa sulla base del miglior utilizzo delle
risorse.

● Trade-o tra alta direzione e responsabili di funzione o di area.

● Coerenza con le performance passate (che sono un buon indicatore delle capacità).

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Una volta fatti propri tali elementi, è possibile passare alla definizione della visione e della
missione aziendale , successivamente, all’identificazione degli obiettivi strategici.

La visione aziendale è l’idea di sviluppo futuro di una certa situazione politica, economica
o sociale. La visione non riguarda l’azienda, ma tutto il mercato. L’impresa che non ha
visione rischia di scomparire.

Esempi di visione aziendale sono: “Il mondo avrà sempre più bisogno di comunicare”
oppure “La società moderna avverte sempre più l’esigenza di produrre energia pulita”. In
linea di massima risponde alla domanda “Quale sarà il futuro del mercato?”

Un esempio di visione è quello fornito da Martin Luther King Jr:

“If you want to move people it has to be toward a vision that is positive for them, that
taps important values and gets something they desire. It must be presented in a
compelling way that they feel inspired to follow.”

La missione è la ragione per cui l’azienda esiste e spiega cosa farà l’azienda nello scenario
futuro. In particolare, esplicita quali bisogni presenti e futuri soddisfa nello scenario
ipotizzato nella visione.

La missione risponde alla domanda “cosa fate di buono per il mondo?” Per esempio, nel
caso di un’azienda che produce abbigliamento sportivo, la risposta non deve essere
semplicemente “Abbigliamento sportivo”, ma qualcosa come “Eleviamo il piacere di fare
sport ”

Una buona missione è quella che cattura l’essenza dell’azienda e deve avere le seguenti
caratteristiche: a) fornire la direzione e la visione complessiva dell’impresa; b) trasmettere
un’immagine di successo per a rontare il futuro; c) definire i confini competitivi; d)
contenere riferimenti al mercato e ai prodotti/servizi; e) evitare di essere troppo specifica.

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Figura 3: Esempi di missione aziendale

Gli obiettivi strategici

Dopo avere definito la sua visione e la sua missione, l’impresa deve fissare i suoi obiettivi
strategici, ovvero ciò che deve raggiungere ed è critico per il successo.

La Figura 4 o re una sintetica, ma chiara descrizione degli obiettivi strategici che


l’impresa può prefiggersi di raggiungere.

Per essere definiti tali, giova ricordare che gli obiettivi strategici devono superare i
seguenti test?

● Gli obiettivi strategici supportano chiaramente la missione aziendale muovendo


l’impresa nella direzione voluta?

● Gli obiettivi strategici sono realistici e raggiungibili sulla base delle risorse
disponibili, sulla competizione esistente, sulla capacità del management, .e così
via?

● Gli obiettivi strategici sono condivisi da coloro che devono implementarli?

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● Gli obiettivi strategici non sono rigidi e permettono cambiamenti dati eventi se si
realizzassero eventi non pianificati?

● Gli obiettivi strategici sono abbastanza specifici da permettere l’introduzione di


misure di performance?

● Gli obiettivi strategici sono semplici, facili da capire e veicolatori di responsabilità


alle specifiche aree?

Figura 4: Esempi di obiettivi strategici

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Dispensa #10

La Strategia a livello Corporate

Le caratteristiche della strategia a livello corporate

L’organizzazione tipica di un’impresa, soprattutto se di grandi dimensioni, può essere


articolata su tre livelli gerarchici: al livello più alto si parla di corporate, cioè di gruppo di
imprese; al livello intermedio si collocano le unità di business; al livello più basso la singola
unità di business si articola nelle varie funzioni tipiche di ogni azienda, quali la produzione,
il marketing, le vendite, la ricerca e sviluppo.

Le decisioni che impattano sulle prestazioni dell’impresa possono essere prese ai livelli di
corporate, di unità di business e di funzioni tipiche delle aziende.

Coerentemente, la pianificazione strategica deve articolarsi in (cfr. Figura 1): strategia


corporate (oggetto di questa Dispensa), strategia di business (cfr. Dispensa #11) e
strategie funzionali, che verranno descritte nel prosieguo del corso.

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Figura 1: I livelli della strategia

Il processo di pianificazione si svolge attraverso i tre livelli gerarchici in modo tipicamente


top down: le decisioni prese al livello superiore danno origine a decisioni del livello
inferiore, tramite un processo di contrattazione tra i responsabili dei due livelli. Per
esempio nella fase di formulazione delle strategie, prima il corporate definisce le
strategie generali d’impresa, successivamente i responsabili delle unità di business
stabiliscono le strategie di business (concordandole con il management del corporate),
quindi i responsabili di funzione individuano le strategie funzionali, contrattandole con i
responsabili delle unità di business. Da ultimo le informazioni risalgono al livello
corporate, ove si ha una verifica e approvazione delle decisioni prese ai livelli inferiori. Il
processo si articola in modo del tutto analogo anche nelle fasi successive di definizione
degli obiettivi e di definizione dei piani operativi.

Le attività della strategia corporate sono svolte ai massimi livelli dell’organizzazione dalla
Direzione Generale e dal Consiglio di Amministrazione.

Il compito generale della strategia corporate è quello di individuare quali sono i settori in
cui competere (in quale business l’impresa deve operare?) e le unità di business in cui si
deve articolare l’impresa (come deve essere gestito il portafoglio di attività/business?). La
corporate strategy è così ciò che rende il valore dell’azienda nel suo complesso maggiore
della somma delle singole business unit.

Le tipiche decisioni della strategia corporate riguardano:

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● la definizione degli obiettivi generali d’impresa, come il tasso di crescita e la
redditività dell’azienda;

● il grado di integrazione verticale, cioè l’ampiezza della filiera produttiva che viene
gestita direttamente dal Gruppo nei diversi settori;

● gli investimenti che devono essere a rontati per lo sviluppo dei nuovi business;

● l’allocazione delle risorse tra le diverse unità di business.

Le decisioni sul portafoglio d’impresa sono di due tipi: il primo tipo consiste nelle decisioni
inerenti il bilanciamento del portafoglio; il secondo tipo consiste nelle decisioni che
riguardano l’allocazione delle risorse tra le diverse unità di business.

Il primo tipo di decisioni sulla composizione del portafoglio consiste nel bilanciamento del
portafoglio. In questo caso, il management è chiamato a valutare la composizione del
portafoglio d’impresa, valutando, da un lato, l'opportunità di estendere il portafoglio e,
dall’altro, la necessità di concentrarlo.

Il secondo tipo di decisione sul portafoglio di impresa riguarda l’allocazione delle risorse. Il
management a livello corporate stabilisce come utilizzare le risorse finanziarie del gruppo,
definendo i flussi finanziari che si devono avere tra le diverse unità di business.

Il bilanciamento del portafoglio e l’allocazione delle risorse determinano la composizione


del portafoglio, che può essere di tipo conglomerale, cioè espressione di una strategia di
diversificazione, oppure di tipo correlato, cioè espressione di una strategia di
concentrazione (vedi oltre).

Prima di passare alla descrizione di alcuni modelli utilizzati per la definizione della
strategia corporate, si precisa che se l’impresa si identifica in un’unica business unit allora
la strategia corporate coincide con la strategia business, mentre se l’impresa opera in più
business avrà probabilmente più strategie anche molto diverse tra loro.

La matrice BCG

Per analizzare il portafoglio di business e, quindi, definire la più adeguata strategia


corporate, alcune società di consulenza hanno sviluppato semplici modelli grafici a
matrice per la formulazione delle strategie di business. Le matrici sono utilizzate dai
manager del corporate per prendere decisioni riguardanti sia il bilanciamento del
portafoglio d’impresa sia l’allocazione delle risorse alle varie unità di business.

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Tra i modelli più uniti, vi è la matrice sviluppo/quota di mercato elaborata dal Boston
Consulting Group (BCG). La matrice BCG (che prende il nome dalla società di consulenza
che l’ha introdotta sul mercato negli anni 60/70) consente di e ettuare un’analisi del
portafoglio di attività gestite da un’impresa e permette di diagnosticare lo stato di salute
di ogni business unit e, quindi, di determinare l’orientamento strategico più coerente.
Essa aiuta a individuare le attività in cui è opportuno investire o in cui è preferibile
disinvestire.

Figura 2: La matrice BCG

La matrice (cfr. Figura 2) è costruita su due sole variabili: il tasso di crescita del mercato e
la quota di mercato relativa, cioè la quota posseduta dalla unità di business. L’incrocio tra
le due variabili dà origine a quattro quadranti che rappresentano quattro categorie-tipo di
BU (Business Unit).

Nel quadrante delle “stars” si collocano unità di business con elevata quota di mercato,
che operano in mercati che si trovano nella fase di crescita del ciclo di vita. Nel quadrante
dei “question marks” si collocano unità di business che operano in mercati nella fase di
introduzione/crescita, ma che hanno una bassa quota di mercato relativa con prospettive

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non ancora ben chiare. Nel quadrante delle “cash cow” si collocano unità di business
competitive operanti in un mercato giunto nella fase di maturità quindi con un tasso di
crescita di mercato basso ma con una elevata quota di mercato relativa. Nel quadrante
dei “dogs” si trovano infine unità di business con una quota di mercato bassa in un
settore che non cresce più: tipicamente ci si trova nella fase di declino del ciclo di vita.

La situazione interna e l’andamento delle unità di business determinano se si è indirizzati


verso il successo oppure verso il disastro economico.

Per le “stars” gli utili sono abbastanza elevati ed in crescita; vi sono tuttavia esigenze di
elevati investimenti per sostenere la crescita, per cui si possono manifestare comunque
flussi di cassa negativi. Per i “question marks” gli utili sono bassi, instabili e in crescita; i
flussi di cassa sono negativi. Le “cash cows” rappresentano la condizione ideale in cui
potrebbe trovarsi una unità di business. Sia gli utili sia i flussi di cassa sono elevati e
stabili. Nella fase “dog” la situazione non è sempre ben definita. Gli utili sono bassi ed i
flussi di cassa spesso negativi.

Utilizzando la matrice BCG, un portafoglio d’impresa è ben bilanciato (quindi solido in


termini economico/finanziari sia nel breve sia nel medio-lungo periodo) quando le
business unit sono adeguatamente distribuite in tutti i quadranti della matrice. In
particolare: a) ci deve essere un buon numero di “cash cow”, in grado di garantire
profittabilità nel breve periodo e di fornire flussi finanziari ai “question mark”; b) ci devono
essere un po’ di “question mark”, che rappresentano le basi per la profittabilità futura
dell’impresa; c) i “question mark” non devono essere però troppi, perché non tutti i
business nascenti si riveleranno poi e ettivamente redditizi (si tramuteranno cioè in
“star” e quindi in “cash cow”), questi infatti potranno rivelarsi dei fiaschi (cioè dei “dog”);
d) ci devono quindi ovviamente essere delle “star”, che, se ben sviluppate, possono
appunto rappresentare la premessa delle “cash cow”; e) non ci dovrebbero essere “dog”;
spesso tuttavia le imprese sono vincolate a mantenere business unit in perdita (“dog”),
per esempio per o rire una gamma completa di prodotti o ancora per mantenere barriere
all’entrata di potenziali concorrenti.

Nonostante la sua di usione, la matrice BCG presenta alcuni limiti tra cui si ricordano la
sua semplicistica costruzione (si basa solo su due variabili), l’orientamento al passato e
non al futuro e la sua validità solo nel caso di adozione della strategia della leadership di
costo, per la cui descrizione si rinvia alla successiva Dispensa.

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Un modello per la definizione della strategia corporate

Il modello di analisi strategica individua la possibile strategia corporate dell’impresa


attraverso l’utilizzo della matrice proposta da Hunger, Flynn e Wheelen (1990), che
riprende i principi contenuti nella matrice General Electric/McKinsey.

Il modello, rappresentato nella Figura 3, cerca di trovare una sintesi tra l’orientamento
complessivo dell’impresa (strategia di direzione) e la presenza nei diversi settori
economici in cui opera (strategia di portafoglio). Qualunque sia la dimensione
dell’impresa, il primario obiettivo della strategia aziendale consiste nell’individuare la
direzione verso cui muovere l’intera struttura.

La strategia di direzione risponde così a una precisa domanda: quale deve essere
l’orientamento complessivo dell’impresa? Crescere, stabilizzarsi o ritirarsi?

Dal momento che un’impresa può operare in più settori (è il caso tipico delle imprese di
maggiori dimensioni), è necessario che la strategia non si limiti a indicare la direzione da
intraprendere, ma individui i settori o le aree di business in cui competere. L’obiettivo
della strategia di portafoglio consiste proprio nel dare una risposta su come gestire le
diverse aree di business per massimizzare la complessiva creazione di valore.

Coniugando la strategia direzionale con quella di portafoglio, l’adattamento della matrice


di Hunger, Flynn e Wheelen cerca di individuare all’interno di un ventaglio di opzioni la
strategia più opportuna per l’impresa a livello corporale.

Le dimensioni su cui il modello teorico è costruito sono due e si riferiscono ai fattori


strategici dell’impresa, di solito derivati dall’analisi SWOT che è stata oggetto di
trattazione nelle Dispense #6 e #9.

La prima dimensione fa riferimento alle opportunità e alle minacce (fattori esterni)


presenti nei diversi settori in cui l’impresa opera che ne determinano l'attrattività, mentre
la seconda, costruita sui punti di forza e di debolezza dell’impresa (fattori interni),
individua la posizione competitiva dell’impresa. Più precisamente, la dimensione verticale
della matrice segnala quanto il settore/mercato è attraente (alta, media, bassa
attrattività), mentre la dimensione orizzontale indica qual è l’intensità della posizione
competitiva dell’impresa rispetto ai concorrenti (forte, media, debole posizione
competitiva).

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Figura 3: La matrice di Hunger, Flynn e Wheelen

Dalla combinazione delle due dimensioni emergono varie opzioni per la strategia
corporate che, a seconda del diverso orientamento, possono ricondursi a tre categorie:

1. strategie di sviluppo, che mirano alla crescita delle attività dell’impresa;

2. strategie di stabilità, che non producono cambiamenti nell'attuale strategia e


operatività dell’impresa;

3. strategie di contrazione, che riducono il livello di attività dell’impresa nei


settori/mercati ritenuti meno attraenti.

1. Le strategie di sviluppo sono le opzioni di maggiore interesse, visto che indicano come
primari obiettivi strategici lo sviluppo dei ricavi e dei profitti. Per crescere, sia per via
interna che esterna, l’impresa può adottare due principali strategie: la concentrazione
all'interno del settore in cui opera (celle 1, 2 e 5 della matrice) oppure la diversificazione
attraverso la quale lo sviluppo è generato al di fuori del settore (celle 7 e 8).

La strategia di concentrazione è vincente quando il settore esaminato è particolarmente


attraente per il suo alto tasso di crescita o per la presenza di altri virtuosi fattori. La
strategia in oggetto prevede due opzioni di base: la crescita o integrazione verticale (cella

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1 della matrice) e la crescita o integrazione orizzontale (celle 2 e 5). La concentrazione
avviene attraverso l'integrazione verticale, ovvero muove lungo la linea che idealmente
unisce le fonti di produzione alla distribuzione finale, quando il settore è molto attraente
e l’impresa ha una forte posizione competitiva che le consente di ra orzare il vantaggio
competitivo di cui già dispone. La concentrazione avviene attraverso l'integrazione
orizzontale quando l’attrattività del settore è alta o media e la posizione competitiva
dell’impresa non è particolarmente forte.

La strategia di diversificazione diviene perseguibile quando il settore diviene maturo e chi


vi opera ha raggiunto limiti di crescita sia verticale che orizzontale. Nel caso in cui
l’impresa non abbia possibilità di espandersi su mercati internazionali, possibilmente
meno maturi, l’unica possibilità di crescita è legata alla strategia di diversificazione che
può avvenire per via concentrica (cella 7) o per via conglomerata (cella 8).

2. Le strategie di stabilità prevedono che l’impresa persegua la sua missione aziendale e


i suoi obiettivi attuali senza cambiare la strategia in atto. Spesso l’adozione di una
strategia di stabilità è considerato come una mancanza di strategia, anche se tale scelta
strategica può avere successo quando l’ambiente vive un momento di relativa tranquillità
e l’impresa ha individuato una nicchia di mercato in cui la sua dimensione e la sua
struttura sembrano essere adeguate. In questa categoria rientrano due opzioni di base:
l’attesa da buona posizione (cella 4 del modello) e l’attesa da debole posizione (cella 5).

3. Le strategie di contrazione si rendono necessarie quando la debole posizione


competitiva produce risultati economici non soddisfacenti. La necessità di migliorare le
performance aziendali spinge così l’impresa a valutare l’adozione di strategie che
eliminino o perlomeno attenuino la sua debolezza economica. Anche le strategie di
contrazione presentano un ventaglio di più opzioni (celle 3, 6 e 9 del modello) di seguito
descritte.

Le dimensioni della matrice sono alimentate dalla combinazione di alcune variabili chiave.
Pur con le dovute personalizzazioni, l’attrattività del settore e la posizione competitiva
sono determinate dai medesimi fattori per i vari settori/mercati presi in esame.

Per esempio, le variabili che conducono a definire quanto il settore è attraente sono il
tasso di crescita e i margini di profitto del mercato, l’intensità della concorrenza, la
presenza di fattori stagionali e ciclici, le condizioni dell’ambiente esterno (sociale, politico,
economico), la qualità e la quantità di opportunità presenti sul mercato, le minacce alla

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stabilità del settore (nuovi entranti, nuovi prodotti sostitutivi), il grado di rischio e di
incertezza, la compatibilità tra le risorse necessarie per competere con successo nel
mercato e la disponibilità di risorse.

La posizione competitiva è invece determinata da variabili quali la quota relativa di


mercato dell’impresa, i suoi margini di profitto, l‘ampiezza e la profondità della gamma di
prodotti/servizi, la capacità di distribuzione, la disponibilità e il controllo delle risorse, il
capitale di reputazione (immagine e forza del marchio), la relazione con la clientela, le
competenze del management.

Il modello dinamico per le valutazioni strategiche o re alcuni vantaggi nel processo di


formulazione della strategia. Innanzitutto, il modello supporta il top management nel
valutare singolarmente le diverse attività dell’impresa e nel fissare successivamente gli
obiettivi strategici. La valutazione è alimentata dall’esame di una serie di variabili esterne
e interne che, tra loro opportunamente combinate, determinano l’attrattività del settore
e la posizione competitiva. In particolare, il modello fa sue le indicazioni contenute nella
matrice GE/McKinsey secondo la quale attrattività del settore e posizione competitiva
dipendono da più fattori e non solo dal tasso di crescita di mercato e dalla relativa quota
detenuta, come invece previsto nella più semplice matrice BCG (Boston Consulting
Group).

La presenza di più variabili sui quali il management è chiamato a esprimere giudizi


qualitativi eleva la comprensione delle variabili che influenzano la scelta dell’opzione
strategica più idonea. Allo stesso tempo, i risultati del modello sono supportati
dall’esame degli aspetti di natura commerciale ed economica.

Tuttavia, il modello proposto non può considerarsi esauriente e completo per la presenza
di alcuni limiti che sembrano comuni alla modellistica applicata nella pianificazione
strategica (Wheelen e Hunger, 2000; Heracleous, 2003). Il modello tende infatti a trattare
le aree di business come indipendenti, focalizza la propria attenzione su strategie
tradizionali che potrebbero non avere successo e comunque non cogliere tutte le
opportunità di mercato, non è scientificamente rigoroso perché si basa su giudizi
personali.

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #11

La Strategia a livello Business

Le finalità della strategia a livello business

La strategia a livello di business definisce come l’impresa vuole crescere e competere


all’interno del suo mercato. La strategia di business è di competenza dei dirigenti delle
singole unità di business. Al livello di strategia di business vengono definiti i piani di ogni
business unit, cioè si determinano quali debbano essere le azioni sulle attività e sui
processi per renderla più competitiva.

La definizione di tali piani deve avvenire in modo coerente con i risultati dell’analisi SWOT
(ovvero le opportunità e le minacce del settore, i punti di forza e di debolezza dell’unità di
business) e le decisioni prese a livello corporate, che comprendono l’ammontare ed il tipo
di risorse allocate all’unità di business.

In tale ambito, si configurano due direzioni strategiche:

● la strategia competitiva che indica come l’unità di business intende posizionarsi per
creare valore per i suoi clienti in modo di erente dai suoi concorrenti; nella fattispecie,
la strategia competitiva si configura come un integrato e coordinato insieme di
impegni e azioni che l’impresa utilizza per conseguire il vantaggio competitivo facendo
leva sulle competenze chiave in uno specifico mercato;

● la strategia di crescita dell’azienda, che può avvenire per linee interne o esterne
(acquisizioni di altre società) o può invece prevedere la stabilità dell’impresa nella
situazione in cui si trova (quindi, opzione di non crescita).

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Nella definizione della strategia business, esiste un collegamento tra le competenze
chiave dell’impresa, la sua strategia globale e per l’appunto la strategia business. Tale
relazione, di natura lineare, può essere così descritta:

● le competenze chiave sono costituite dalle risorse e capacità che costituscono la fonte
del vantaggio competitivo dell’impresa;

● la strategia è l’integrato e coordinato set di azioni intrapreso per sfruttare le


competenze chiave e costruire il vantaggio competitivo;

● infine, la strategia a livello business è l’insieme di azioni intraprese per creare valore ai
clienti e costruire il vantaggio competitivo sfruttando le competenze chiave in uno
specifico, individuale mercato.

Come già indicato nella Dispensa#5, nella selezione della strategia a livello business
l’impresa determina:

a. chi vuole servire (ovvero, decide a quali segmenti di mercato rivolgere l’o erta d
prodotti/servizi);

b. quali bisogni dei clienti target vuole soddisfare (e, quindi, stabilisce come
di erenziare i propri prodotti/servizi da quelli dei concorrenti);

c. come soddisfare i bisogni (e, quindi, su quali competenze distintive fare leva).

In tale ambito, le strategie business-level si propongono di creare di erenze tra la


posizione competitiva dell’impresa e quelle dei suoi rivali. A tal fine, l’impresa deve
decidere se intende svolgere le stesse attività dei concorrenti, ma in modo diverso oppure
svolgere di erenti attività da quelle dei concorrenti.

Ponendo al centro dell’attenzione il cliente, l’iterazione tra mercati, prodotti/servizi e


competenze distintive determina l’ampiezza delle attività di un’impresa che può variare a
seconda della strategia competitiva (generica o legata al ciclo di vita) e della strategia di
crescita dell’impresa, che di seguito verranno descritte.

Le strategie competitive generiche

Le strategie competitive generiche, di cui nella tavola 1 vengono riassunte le principali


caratteristiche, sono tre:

1. la strategia della leadership di costo;

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2. la strategia della di erenziazione;

3. la strategia della focalizzazione.

Tavola 1: I tratti essenziali delle strategie competitive generiche

Leadership di
costo Di erenziazione Focus

Di erenziazione Bassa
di prodotto (principalmente Alta (principalmente da bassa ad alta
dipende dal prezzo) dipende da unicità) (prezzo o unicità)

Segmenta-zione Bassa Alta Bassa


di mercato (mercato di massa) (molti segmenti di (uno o pochi
mercato) segmenti)

Competenze Produzione, acquisti Ricerca e sviluppo, Ogni tipo di


distintive vendite e marketing competenza
distintiva

1. La strategia della leadership di costo è un integrato set di azioni disegnato per


produrre o distribuire prodotti o servizi al costo più basso, rispetto ai concorrenti con
caratteristiche accettabili dai clienti. Pertanto, i beni/servizi prodotti sono relativamente
standardizzati, hanno caratteristiche che interessano molti clienti, presentano il prezzo
competitivo più basso.

Le più comuni azioni che conducono al risparmio di costi richiesto dalla strategia sono: la
costruzione di impianti e cienti (“e cient scale plant”); lo stretto controllo dei costi di
produzione e di struttura; la minimizzazione dei costi di vendita, ricerca e sviluppo e
assistenza; il monitoraggio dei costi delle attività fornite da terzi e la semplificazione del
processo produttivo.

La corretta esecuzione di tali azioni permette di elevare la capacità di utilizzo degli


impianti, favorisce l’ottenimento di economie di scala, apporta miglioramenti tecnologici,
riflette i benefici della learning/experience curve e rende possibili i collegamento
all’interno della catena del valore (per esempio, tra vendite e comunicazione e tra
logistica e produzione).

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Tuttavia, alcuni rischi possono interessare l’adozione di tale strategia. Tra gli altri, si
segnala il fatto che importanti cambiamenti tecnologici possono attenuare il vantaggio di
costo così come può accadere che i concorrenti imparino come imitare la catena del valore
attraverso l’attività di benchmarking e l’adozione delle best practices. Infine, il focus
sull’e cienza può fare sì che i leader di costo sottovalutino i cambiamenti nelle
preferenze dei clienti.

2. La strategia di di erenziazione è un integrato set di azioni disegnato da un’impresa


per produrre o distribuire prodotti o servizi (a un costo accettabile) che i clienti
percepiscono come di erenti secondo dimensioni/attributi per loro importanti e che li
spinge a valutare le caratteristiche distintive (ovvero non standard) del prodotto più di
quanto valutano il basso costo.

La strategia in oggetto mira a rendere massimo il valore fornito al cliente grazie alle
uniche caratteristiche del prodotto/servizio; ciò consente di realizzare un “premium price”
(ovvero un prezzo superiore a quello dei concorrenti) grazie all’elevato servizio fornito al
cliente, alla qualità superiore, al prestigio o esclusività del bene o del servizio prodotto.

Le azioni richieste dalla strategia di di erenziazione sono lo sviluppo di nuovi sistemi e di


nuovi processi, la capacità di trasmettere al cliente la percezione del valore (via l’attività di
comunicazione & marketing), il continuo focus sulla qualità, la capacità di innovare la
massimizzazione del contributo delle risorse umane attraverso la bassa rotazione di
personale e l’alta motivazione.

Tuttavia, alcuni rischi possono interessare l’adozione di tale strategia. Per esempio, i
clienti possono decidere che il di erenziale di prodotto (premium price) sia troppo alto;
allo stesso tempo, gli elementi di di erenziazione (e.g. le caratteristiche uniche del
prodotto, le esclusive performance, l’eccezionale servizio, la qualità degli input) possono
finire di fornire valore per i quali i clienti sono disposti a pagare (si pensi al venire meno
dell’e etto di richiamo esercitato da un marchio). Infine, i produttori di beni o servizi
similari possono tentare di replicare gli elementi di di erenziazione dei prodotti
dell’impresa leader (cosiddetto e etto imitazione).

3. La strategia di focalizzazione cerca di cogliere le di erenze di un segmento più


ristretto rispetto al mercato di riferimento del settore di mercato attraverso:

● l’isolamento di un particolare gruppo di clienti;

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● l’isolamento di un unico segmento di una linea di produzione;

● la concentrazione su un particolare mercato geografico;

● la ricerca di una propria “nicchia” di mercato.

Tra i fenomeni che spingono l’impresa a perseguire una focus startegy si segnalano i
seguenti: le grandi imprese possono trascurare le piccole nicchie di mercato; l’impresa
può non avere le risorse per competere nel mercato più ampio; la capacità di servire il
segmento di mercato di nicchia più e cientemente che gli altri operatori più grandi; il
focus può consentire all’impresa di indirizzare le risorse su certe attività della catena del
valore per costruire il proprio vantaggio competitivo.

Oltre ai rischi tipici delle strategie di riferimento (leadership di costo e di erenziazione), la


strategia in oggetto presenta alcuni rischi specifici. In primo luogo, l’impresa può essere
“messa nel mirino” dai concorrenti; tale rischio è maggiore quando i concorrenti più
grandi decidono di entrare nella nicchia di mercato. In secondo luogo, le preferenze della
nicchia di mercato possono cambiare avvicinandosi a quelle del mercato più ampio.
Soprattutto le imprese di minori dimensioni, che tipicamente perseguono strategie di
focalizzazione, devono porre attenzione ai rischi di tale scelta strategica per evitare, come
alcuni ricordano, che “le nicchie di mercato si trasformino in loculi” (!).

La scelta della strategia (leadership di costo, di erenziazione, focus)1 diviene il cardine su


cui l’impresa costruisce il vantaggio competitivo sostenibile che le consente di ottenere
performance superiori a quelle dei concorrenti. La strategia generica è propedeutica alla
definizione del posizionamento strategico, ovvero del modo in cui la banca decide di
essere diversa dalla altre. Per Porter (1996), il posizionamento strategico segnala come
l’impresa decide di svolgere attività di erenti dai concorrenti o di svolgere le medesime
attività in modo di erente al fine di fornire una unica combinazione di valore.

Le strategie competitive e le cinque forze di Porter

Dopo avere appreso le caratteristiche di fondo delle strategie competitive generiche e


ricordando gli elementi essenziali del modello delle cinque forze, presentato nel corso
dell’analisi esterna (cfr. Dispensa #7), pare opportuno evidenziare la relazione tra
1
La compatibilità tra leadership di costo e differenziazione è oggetto di controversia. Secondo alcuni, l’impresa deve
scegliere quale strategia adottare pena il rischio di trovarsi “in mezzo al guado”. Per altri è invece possibile integrare le
due strategie purché siano presenti alcune condizioni. Secondo Hill (1998) gli investimenti destinati allo sviluppo della
differenziazione possono migliorare la fedeltà alla marca che a sua volta favorisce l’incremento dei ricavi e la riduzione
dei costi di lungo periodo. In questo caso, l’orientamento alla differenziazione consente all’impresa di affermarsi anche
come leader di costo.

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strategia della leadership di costo e di di erenziazione e le cinque variabili alla base
dell’analisi del settore.

Tavola 2: Le strategie competitive e il modello di Porter


Forza
competitiva Leadership di costo Di erenziazione

Rivalità tra I concorrenti evitano la guerra dei La fedeltà alla marca attenua la
imprese prezzi con leader di costo competizione sui prezzi

Potere dei I leader spingono i prezzi verso il La fedeltà ai prodotti ben


clienti basso provocando l’uscita dei di erenziati riduce la sensibilità ai
concorrenti e quindi mitigando il prezzi dei clienti
potere dei clienti

Potere dei I leader di costo possono: a) Chi di erenzia può assorbire


fornitori assorbire aumenti dei prezzi aumenti dei costi dei fornitori
grazie alla loro posizione di costo; grazie ai più alti margini e può
b) fare acquisti consistenti meglio assorbirli grazie alla fedeltà
alla marca

Nuovi I nuovi entranti devono entrare in I nuovi prodotti devono superare i


entranti grande scala per essere prodotti esistenti e devono avere le
competitivi e necessitano di medesime performance, ma o erti
tempo (learning curve) a un prezzo più basso

Prodotti I leader di costo: a) fanno La fedeltà alla marca per i prodotti


sostitutivi investimenti per creare sostituti; ben di erenziati tende a ridurre
b) acquistano brevetti sviluppati l’interesse dei clienti a provare
da potenziali concorrenti; c) nuovi prodotti o a cambiare brand
abbassano prezzi per mantenere
la posizione competitiva

La Tavola 2 presenta in modo schematico, ma e cace, la relazione tra ogni forza e la


strategie competitiva generica. Più precisamente, si cerca di evidenziare come l’impresa
che persegue una delle due strategie competitive possa “respingere” la minaccia
rappresentata dall’intensità della competizione, dal potere contrattuale dei clienti, dal
potere contrattuale dei fornitori, dall’entrata sul mercato di nuovi attori e/o di prodotti
sostitutivi.

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Le strategie del ciclo di vita (cenni)

La strategia del ciclo di vita è il set di azioni integrato che l’impresa può decidere di porre
in atto in una specifica fase del suo ciclo di vita che può essere distinto in: introduzione,
sviluppo, consolidamento, maturità e declino (per un approfondimento sul modello del
ciclo di vita si rimanda a quanto presentato nella Dispensa #7).

Nella Tavola 3 viene presentato l’obiettivo strategico di un’impresa che si trovi in una
forte (debole) posizione competitiva a secondo della fase del ciclo di vita in cui si trova.

Tavola 3: Gli obiettivi delle strategie legate al ciclo di vita


Fase del ciclo
Forte posizione Debole posizione
competitiva competitiva

Introduzione Costruzione della quota Costruzione della quota

Sviluppo Crescita Concentrazione di mercato

Consolidamento Crescita quote Concentrazione di mercato o


liquidazione/raccolta

Maturita Mantenere profitti Raccolta o liquidazione/


disinvestimento

Declino Concentrazione mercato o Turnaround, liquidazione o


raccolta (riduzione asset) disinvestimento

Le strategie di crescita

Le strategie di crescita sono strettamente collegate alle strategie competitive: solo se


l’impresa persegue strategie competitive di successo genera risorse, materiali e non, per
sostenere con successo la propria crescita.

La Tavola 4 o re una rappresentazione del contenuto delle strategie di crescita.

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Tavola 4: Le strategie di crescita

Crescita Tipo di strategia Tattica Cambiamenti


nell’attività
Penetrazione di Crescita delle quote di Nessuno
mercato mercato nel corrente
business attraverso
pubblicità, promozioni,
INTERNA impulso alla forza
commerciale
Sviluppo di Identificare nuovi Ampliamento dei
mercato segmenti di mercato o mercati a cui destinare i
nuove applicazioni di prodotti/servizi
prodotto/servizio
Sviluppo Modificare i Definire cambiamenti
prodotto/servizio prodotti/servizi nei prodotti/servizi;
esistenti o sviluppare possibili cambiamenti
nuovi prodotti/servizi nei mercati, nelle attività
per clienti esistenti o o nei processi di
potenziali riconversione delle
risorse
Integrazione Acquistare società che Allargare il bacino di
orizzontale operano nello stesso mercato; possono
ESTERNA settore economico esserci anche altri
cambiamenti che
dipendono dal profilo
della società acquisita
Alleanza Creare alleanze con altre Allargare i
strategica organizzazioni per prodotti/servizi, i
ra orzare la posizione di mercati, le attività svolte
mercato, lo sviluppo di o modificare il processo
prodotto e di processo di conversione del
processo
NO Stabilità Mantenere lo status Nessuno
CRESCITA quo (alcune imprese
possono seguire questa
strategia solo
temporaneamente)

Fonte: Harrison, St. John (2004)

Le strategie funzionali (e i piani operativi)

Il piano operativo è un piano “step by step” per l’implementazione del piano strategico.
Più il piano strategico è ben costruito, più facile sarà implementarlo attraverso piani
operativi e caci.

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Il piano operativo ha un orizzonte di breve periodo (di solito un anno). Una delle sue
principali funzioni è quella di allocare le risorse a nché si implementi il piano strategico.
Se le risorse non sono disponibili o ve ne sono in eccesso, il piano strategico deve essere
rivalutato.

I piani operativi devono coprire tutte le aree funzionali per cui è richiesta
l’implementazione – governo d’azienda, credito, finanza, marketing, rete di vendita, IT,
etc. – da cui deriva l’associazione con il termine di strategia funzionale. Ogni area deve
inviare budget e piani dettagliati che devono essere inclusi nei piani operativi. I piani
funzionali devono contenere:

● Indicazioni sulla struttura organizzativa e sulle risorse

● Indicazioni sulle necessità di investimento

● Indicazioni sui tempi

● Indicazioni sulle necessità di formazione

● Indicazioni di natura economica e finanziaria

Generalmente, i piani funzionali devono essere preparati dal responsabile di funzione. Il


suo compito è di rimanere ancorato al piano strategico e non perdersi in dettagli. I migliori
piani operativi tendono a minimizzare i dettagli per essere continui con il piano strategico.

Altri elementi chiave del piano operativo sono:

● Assegnare responsabilità e definire il ruolo delle persone nell’accompagnare il


piano strategico.

● Essere flessibili in modo da permettere modifiche ogni volta che l'impresa


acquisisce nuove conoscenze ed esperienza. “An incremental, trial and error
approach is often the best approach.”

● Essere su cientemente rigidi da assicurare la realizzazione degli obiettivi


strategici, senza però limitare la creatività e la flessibilità.

● Includere una timeline per il completamento dei compiti assegnati.

● Essere comunicati in modo chiaro a tutti coloro coinvolti nella loro esecuzione.

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La corretta implementazione richiede il monitoraggio dello stato di avanzamento delle
azioni indicate nei piani operativi. La valutazione deve essere periodica (mensile,
trimestrale, semestrale, ...) con enfasi su:

● Qual è lo stato di avanzamento dei compiti assegnati?

● Quali ostacoli hanno frenato lo sviluppo?

● E’ necessario tornare indietro e rivedere il piano operativo?

● Quali aggiustamenti devono essere fatti al piano?

Un modo per valutare e controllare un piano operativo è rappresentato dal budget, che
alloca le risorse e coordina l’utilizzo delle attività. I bugdet di area sono di solito di breve
periodo e devono essere preparati nel rispetto dei seguenti requisiti: a) semplici e facili da
capire; b) utilizzati per le aree che si devono monitorare; c) non influenzare le decisioni:
sono uno strumento del management, non la guida della gestione.

Uno dei problemi del budget è che, spesso, è solo di natura economica e finanziaria. Il
piano strategico copre molte aree non strettamente di natura economica e finanziaria
(marketing, relazione con il cliente, gestione delle risorse umane, ...) Pertanto, è utile
avere un sistema di misurazione per le aree non finanziarie.

In tale ambito, uno degli strumenti che stanno riscuotendo successo è la Balanced
Scorecard (che include anche misure di natura economica) e che è costruita intorno al
piano strategico. Come quest’ultimo, la migliore BS deve essere semplice e facilmente
gestibile.

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #12

Il Marketing

La definizione di marketing

Con il termine marketing si identificano generalmente tutte le attività necessarie per


sviluppare e portare il prodotto/servizio dall’azienda al consumatore.

La funzione marketing è la funzione aziendale che pone il consumatore, i suoi bisogni, i


suoi interessi, al centro dell’attività dell’impresa.

Box: Aspetti formali e reali del marketing

La definizione formale:

“complesso di attività di un’impresa che vanno dall’ideazione di un servizio al loro utilizzo


da parte dell’utente”.

“The process of planning and executing the conception (product), pricing, promotion, and
distribution of ideas, goods, and services to create exchanges the satisfy individual and
organizational objectives.”

La definizione reale:

“insieme di attività con cui un’organizzazione orientata al cliente soddisfa le esigenze


delle persone”.

“The delivery of customer satisfaction at a profit.”

“Develop and maintain profitable relationships”

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Non tutte le aziende manifestano lo stesso atteggiamento nei confronti del marketing e,
quindi, si distinguono aziende con diversi orientamenti (impresa più orientata alla
produzione, al prodotto, alle vendite, al marketing).

Figura 1: L’evoluzione del marketing

Inoltre, come mostrato nella Figura 1, nel corso del tempo si è assistita a un’evoluzione
del marketing che ne ha favorito l’applicazione a settori non tradizionali (musei, parchi
tematici, sport, concerti) e a temi e argomenti non tradizionali (marketing “ambientale”,
“territoriale”, “politico”)

Gli obiettivi del marketing

Gli obiettivi del marketing possono essere così riassunti:

● Elevare la soddisfazione del cliente/consumatore

● Ottenere la migliore conoscenza dei bisogni del cliente

● Creare/stimolare la domanda

● Acquisire un vantaggio competitivo difendibile e duraturo

● Favorire la redditività di lungo periodo

● Sostenere la creazione di valore economico per l’impresa

L’elevazione della soddisfazione del cliente favorisce, da un lato, la redditività dell’azienda


e, dall’ altro, la sua capacità di crescita. Come mostrato nella Figura 2, le aziende che

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hanno più clienti soddisfatti hanno tassi di redditività più alti e crescono più velocemente
rispetto alle aziende che hanno meno clienti soddisfatti.

La relazione tra profitto e soddisfazione del cliente è funzione di tre variabili: a) i clienti
soddisfatti tendono a ripetere l’acquisto del prodotto (e, quindi, minori costi di contatto
per l’azienda), acquistano prodotti/servizi dai margini più alti e sono più fedeli (meno costi
pubblicitari e promozionali per trattenere il cliente).

La relazione tra profitto e crescita dell’impresa è funzione di altre tre variabili: a) i clienti
soddisfatti tendono ad acquistare altri prodotti/servizi dell’impresa (e, quindi, maggiori
economie di scopo per l’azienda), sono buoni testimonial e, quindi, fanno positiva attività
di “passaparola” e sono più attenti a considerare il lancio di nuovi prodotti/servizi offerti
dall’azienda).

La definizione di tali obiettivi richiede un’attenta analisi del mercato:

● Quale mercato potenziale?

● Quali previsioni di vendita?

● Quali trend di sviluppo?

● Quale redditività del prodotto/servizio?

● Quali attività di marketing?

L’insieme delle attività di marketing è funzione della tipologia di prodotto, di servizio e di


organizzazione. Per esempio, nel caso di marketing sportivo, le attività di marketing sono
funzione:

(1) dei prodotti, come abbigliamento, attrezzature ed equipaggiamento sportivo;

(2) dei servizi, come lezioni di abilità o club memberships;

(3) delle entità, quali leghe, squadre, individui.

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Figura 2: La relazione tra soddisfazione del cliente, profitto e crescita dell’impresa

Il processo di marketing

Il corretto processo di marketing consiste di due fasi, separate in termini descrittivi, ma


strettamente interrelate (cfr. Figura 3):

● la fase analitica, che interpreta le caratteristiche dell’ambiente rilevanti per


l’impresa;

● la fase operativa, che gestisce le leve del marketing, di seguito descritte.

Tutte le decisioni che riguardano l’impresa e il mercato dovrebbero essere assunte solo
dopo aver svolto la fase analitica (investigativa).

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Figura 3: Le fasi del marketing

La fase analitico-conoscitiva

Per l’assunzione e la realizzazione di decisioni di marketing efficaci l’impresa deve


conoscere e tenere sotto controllo gli elementi dell’ambiente che la circonda.

L’analisi si focalizza su tre aree specifiche:

● analisi dell’offerta (concorrenza e settore)

● analisi della domanda

● analisi del sistema distributivo

Parallelamente, l’impresa deve predisporre un sistema per rilevare e classificare le


informazioni riferite al suo interno in termini di punti di forza e di debolezza. In questo
modo, l’impresa dispone di tutte le informazioni per valutare opportunità e minacce
esistenti nell’ambiente e capacità competitive dell’impresa stessa. Tale attività è oggetto
dell’analisi SWOT, già presentate nelle precedenti lezioni.

Per l’analisi dell’offerta, si rinvia a quanto descritto nella Dispensa #7. In questa sede, si
ricorda solo che il marketing deve consentire all’impresa di ottenere un vantaggio sui

Dispensa 12 – Gestione Aziendale


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concorrenti. Prima di predisporre gli strumenti di politica di marketing per ottenere tale
vantaggio, bisogna analizzare il luogo in cui il vantaggio si può concretizzare, ovvero il
settore in cui l’impresa opera e la concorrenza ivi presente.

Il settore è il luogo economico in cui si realizza il confronto concorrenziale. Come già in


precedenza descritto (cfr. Dispensa #7), l’analisi della struttura del settore comprende: la
definizione dei confini settoriali, l’analisi della concentrazione industriale, l’alternativa tra
economie di dimensione e differenziazione dell’offerta, il concetto di concorrenza
allargata e le barriere all’entrata (modello delle cinque forze).

La rivalità tra imprese si manifesta con riferimento alla conquista delle preferenze della
domanda. La lotta tra imprese si sviluppa solo se tra le varie offerte ci sono delle diversità
apprezzabili. Questo comporta che la concorrenza tra aziende si manifesta
essenzialmente nella differenziazione dell’offerta.

In termini di analisi della domanda, l’impresa deve capire i bisogni dei clienti, la loro
domanda e la loro propensione e modalità di consumo.

Box: Bisogni, domanda e consumo

I bisogni. Ogni individuo ha una serie di bisogni che si palesano con vario grado di
intensità, sono in gerarchia e diversamente distribuiti nel tempo. Il numero dei bisogni
che il consumatore vorrebbe soddisfare è illimitato e la serie che può essere soddisfatta
dipende principalmente dalle possibilità economiche.

La domanda. E’ costituita da una serie di intenzioni e di azioni tese ad assicurare la


disponibilità del bene o del servizio (e si conclude di regola con un rapporto di scambio).
Esprime la quantità di prodotti e/o servizi che vengono richiesti in un determinato periodo
dall’insieme degli individui, famiglie e aziende presenti in un mercato. La nozione di
domanda si distingue tra: a) globale e aziendale; b) di prodotti e/o di servizi; c) finale e
intermedia; d) autonomia e derivata.

Il consumo. E’ espressione di utilità, ricerca di soddisfazione e di piacere derivanti dal


prodotto acquistato. Studiare il consumo non può essere un’attività condotta utilizzando
un unico approccio disciplinare poiché il comportamento di consumo è un fenomeno
complesso, che può essere indagato servendosi di numerose discipline (economiche,
sociologiche, psicologiche).

Dispensa 12 – Gestione Aziendale


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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #13

Il Processo di Marketing

Le fasi del processo

Il processo di marketing si compone di una sequenza di azioni che possono così essere
riassunte:

● analizzare le opportunità di mercato, ovvero identificare le opportunità di crescita


(nuovi target, nuovi prodotti/servizi, nuovi eventi)

● sviluppare le strategie di marketing, che comprendono il posizionamento (low cost,


alte performance, non definito - middle of pack), lo sviluppo di prodotti/servizi
(sviluppare offerta coerente con il posizionamento), la fase di test (test sui
consumatori e feedback) e il lancio del prodotto/servizio

● definire e implementare il piano di marketing, ovvero individuare il marketing mix


(prezzo, prodotto, posto, promozione), allocare le risorse (allocazione delle risorse
ai vari canali – promozioni, media, vendite) e definire gli aspetti economici (costi,
previsioni di vendita, margini) – la descrizione di tali attività sarà oggetto della
prossima dispensa

● verificare la gestione delle risorse.

In tale processo quattro sono i passaggi chiave:

1. Conoscenza del mercato

2. Market segmentation (segmentazione del mercato)

3. Target marketing (individuazione del mercato obiettivo)

4. Market positioning (posizionamento di mercato)

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Di seguito, si presentano gli obiettivi fondamentali di ogni fase che saranno meglio
specificati nel prosieguo di questa dispensa.

1. Conoscenza del mercato:

● Capire il contesto in cui si svolge l’attività dell’impresa e capire le dimensioni del


mercato in cui l’impresa opera o vuole operare

● L’analisi di mercato è rivolta a raccogliere, classificare e analizzare le informazioni


rilevanti per l’azienda e valutarne l’evoluzione

2. Segmentazione del mercato:

● Dividere il mercato in gruppi con distinte caratteristiche, necessità o


comportamenti, che possono richiedere prodotti/servizi diversi o diversi marketing
mix (e rispondere a differenti marketing mix)

3. Target marketing:

● Valutare l’attrattività di ogni segmento di mercato

● Decidere quale segmento servire (scegliere quello più profittevole)

4. Posizionamento di mercato:

● Occupare un chiaro, distintivo e desiderabile posizionamento nella testa dei clienti


obiettivo rispetto ai concorrenti

La conoscenza del mercato

Gli obiettivi di tale fase sono capire due elementi chiave di ogni mercato:

● dimensionamento: identificare il mercato, il settore, i target e le relative


dimensioni;

● tendenze e futuro: analizzare l’andamento del mercato e dello specifico segmento


in cui opera l’azienda; fare delle assunzioni circa l’andamento futuro.

Attraverso la conoscenza del mercato, è possibile graduare i singoli gruppi di consumatori


individuati secondo una scala di priorità: i primi rappresentano il mercato più importante, i
secondi quelli interessanti, i terzi quelli di nessun interesse.

Il dimensionamento serve per identificare il mercato nella quale la società compete e


identificare il potenziale di crescita e dei segmenti in cui opera.

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Per esempio, qual è il mercato di un’azienda che opera solo nel settore degli orologi di
lusso e distribuisce solo in Europa?

Figura 1: Il dimensionamento del mercato

L’analisi delle tendenze serve per comprendere i trend della domanda e i suoi driver al fine
di stimare l’andamento futuro dei mercati. Gli strumenti usati sono l’analisi dei driver e
modelli di natura statistica (correlazioni/regressioni). Un semplice ma importante
indicatore è il tasso medio annuo di crescita, che misura la crescita media composta in un
certo periodo e non la crescita anno su anno (cfr. Figura 2).
Figura 2: Il tasso medio annuo di crescita

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La segmentazione di mercato

La segmentazione è un processo costituito da più tecniche operative che permette di


individuare le tendenze nella domanda di prodotti/servizi al fine di adattare la politica di
offerta a specifici profili di clientela. La metodologia consiste nel disaggregare il mercato
di riferimento in segmenti omogenei in modo da determinare tipologie di clientela con
caratteristiche simili.

I metodi di segmentazione e le relative variabili utilizzate variano a secondo della quantità


e della qualità dei dati a disposizione e del valore che si vuole assegnare al processo. La
segmentazione più tradizionale prevede una distinzione del cliente sulla base di parametri
quali patrimonio, reddito, professione, tasso di scolarità e, quindi, si propone di delineare
il profilo demo-socio-economico della clientela; i metodi più evoluti si propongono di
scoprire, nell'ambito della relazione con il cliente, quali sono i problemi per i quali il cliente
cerca una soluzione e quali sono i benefici attesi (per esempio, qualità del servizio,
frequenza delle informazioni).

Qualunque sia la metodologia prescelta, la segmentazione è efficace se le variabili


utilizzate sono in grado di distinguere chiaramente più segmenti di clientela e di
delineare, per ogni segmento, un profilo completo (abitudini, comportamenti, aspirazioni,
necessità).

Al centro del processo, vi è la conoscenza del cliente che viene "immagazzinata" in un


grande contenitore di dati (datawarehouse) che contiene le informazioni di
riconoscimento, descrittive e gestionali riferite al cliente. I dati contenuti nel
datawarehouse sono riorganizzati in una base informativa unitaria e catalogati in diversi
archivi tra loro integrati. L'estrazione automatica delle informazioni più qualitative,
attraverso tecniche denominate di data mining e data explosion e l'utilizzo di sistemi di
customer relationship management (CRM), consente di generare report su gruppi di
clientela definiti sulla base di più dimensioni: socio-economiche (per esempio, dimensione
del patrimonio e flussi di reddito), comportamentali (per esempio, frequenza e tipologia
dei contatti) e psicografiche (per esempio, cultura e autonomia decisionale).

La definizione di caratteristiche proprie di segmenti di clientela omogenei (cluster)


fornisce un supporto all'analisi strategica del mercato e alla determinazione delle azioni
tattiche da intraprendere. Più precisamente, l'analisi dei cluster consente di individuare i

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segmenti di maggiore rilevanza e, per ognuno di essi, definire, sulla base dello specifico
profilo, il processo di acquisto (disponibilità al contatto e sua personalizzazione), i
prodotti e il livello di servizio (ampiezza e profondità della gamma, aspettative di servizio),
i canali distributivi ideali (utilizzo di canali telematici), l'azione commerciale (ampliamento
delle quote del patrimonio gestito per cliente, acquisizione di nuovi clienti) e la campagna
di comunicazione (focus su particolari leve del marketing mix).

Figura 3: Un semplice esempio di segmentazione

La scelta del mercato obiettivo (targeting del mercato)

L’obiettivo dell’attività di targeting consiste nello scegliere i segmenti di mercato (o i


gruppi di clienti) strategicamente più interessanti per l’impresa e, per ognuno di essi,
stabilire:

● necessità: economiche, psicologiche, di percezione

● abitudini di acquisto: come comprano, quanto comprano, quando comprano …

● orientamento alla qualità: set di prodotti, qualità del servizi, …

● canali distributivi: preferenza del canale e delle modalità di contatto

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● strategia commerciale: push o pull?

Per selezionare i segmenti di clientela che l’azienda vuole servire, una possibile
metodologia consiste nell’evidenziare il gap esistente tra il modello di offerta dell’impresa
e la domanda di servizio espressa dai segmenti di clienti individuati nella precedente fase
del processo. Analizzando i risultati emersi dalla segmentazione, è possibile individuare il
livello di priorità assegnato da ogni target di clientela ad alcune specifiche variabili
rappresentate sull'asse delle ascisse della Figura 4: ampiezza e profondità della gamma
(contenuto di prodotto), performance e personalizzazione del servizio (contenuto e
modalità di servizio), accesso al servizio e innovazione tecnologica (tipologia di
interfaccia/canale). Esprimendo su una scala graduata le diverse esigenze dei segmenti
esaminati (asse orizzontale della figura) e confrontandole con i vantaggi competitivi
dell’impresa (linea tratteggiata della figura), si evidenzia la corrispondenza tra i diversi
profili della clientela private e il modello di offerta aziendale. Nella fattispecie, l’impresa
decide di orientarsi verso il segmento più sofisticato, ovvero quello dei clienti "Concorde".
Figura 4: La fase di targeting

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Il posizionamento di mercato

Chi opera in un mercato ha un posizionamento in relazione alla percezione e ai bisogni dei


consumatori.

Graficamente il posizionamento di prodotti/servizi può essere definito sulla base di due


parametri: prezzo e qualità che definiscono la mappa di posizionamento (cfr. Figura 5). E’
possibile mappare il mercato in relazione ad una pluralità di variabili, purché rilevabili e
significative.

Figura 5: La mappa di posizionamento

L’obiettivo del posizionamento è fissare nella testa del target market il prodotto/servizio
offerto. La domanda chiave è quindi: come il mercato target percepisce il
prodotto/servizio offerto?

Come ricorda Kotler, “il posizionamento consiste nel definire l’offerta dell’impresa in
modo tale da consentirle di occupare una posizione distinta e apprezzata nella mente dei
clienti obiettivo”.

La definizione di come e dove l’azienda vuole posizionarsi sul mercato fa capire in quale
modo l’impresa vuole differenziarsi dagli altri concorrenti (essere migliori, più veloci, più
puntuali, meno cari, offrire maggiore varietà ....). In una parola, fa capire quali sono i punti
di forza su cui l’impresa punta per conseguire il proprio vantaggio competitivo dato che
identifica i fattori più rilevanti per i clienti, aiuta a capire quali sono i fattori che

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differenziano l’offerta dell’azienda rispetto a quella dei concorrenti, permette di capire
quanto, ma soprattutto “dove”, l’azienda eccelle.

Di seguito, vengono presentati due esempi di posizionamento.

Figure 6-7: Esempi di posizionamento

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Autunno 2024 Dispensa #14

Le 4P e il Piano di Marketing

Le 4 P

Definiti i mercati target e il relativo posizionamento, diviene importante scegliere il marketing mix,
ovvero controllare le variabili che l’impresa utilizza insieme per soddisfare il target di clienti
selezionato.

Tali variabili sono chiamate usualmente le “4P” e sono:

• Product (prodotto): rappresenta l’offerta che l’impresa presenta mercato e include le


caratteristiche del prodotto stesso, la confezione, la marca e i servizi accessori

• Promotion (promozione): comprende le varie attività che l’impresa svolge per informare la
clientela obiettivo sui propri prodotti cercando di stimolarne l’acquisto (pubblicità,
promozione della vendita)

• Place (distribuzione): in tale fase rientrano tutti gli elementi sui quali l’impresa deve operare
per rendere il prodotto accessibile e disponibile ai potenziali clienti (scelta dei canali
distributivi, organizzazione della vendita)

• Price (prezzo): riguardano le decisioni che l’impresa deve adottare in termini di definizione del
prezzo di vendita, sconti, termini e modalità di pagamento. I prezzi di vendita devono essere
conformi alla percezione di valore che hanno i potenziali clienti, per evitare che si rivolgano
alla concorrenza

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Figura 1: La relazione tra fase analitica e fase operativa del processo di marketing

Le 4 P, valutate congiuntamente, costituiscono il marketing mix dell’azienda.

Dal punto di vista del cliente, il marketing mix può così esser visto:

• Prodotto: soluzione a un bisogno

• Prezzo: costo da sostenere per ottenere la soluzione desiderata

• Posto: facilità di entrare in possesso della soluzione desiderata

• Promozione: chiarezza e trasparenza sulle informazioni trasferita dall’impresa offerente

Le 4P sono oggetto della fase operativa del marketing e, come indicato in Figura, sono strettamente
collegati ai risultati della fase analitico-conoscitiva (cfr. Dispensa#12).

In tale ambito, l’impresa deve analizzare e valutare tutti gli strumenti a disposizione per creare una
strategia di marketing adeguata ad entrare nel mercato e competere con la concorrenza. In altri
termini, l’impresa deve definire la sua politica di prodotto, la sua politica di prezzo, la sua politica la
sua politica distributiva e la sua politica comunicativa (pubblicità e promozione).

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Politica di prezzo

• La politica del prezzo è uno dei più efficaci strumenti del marketing

• Le strategie vanno definite in modo da raggiungere gli obiettivi a breve e lungo termine

• Per raggiungere lo scopo è necessario conoscere i prezzi e i margini di ciascun livello di


distribuzione

Politica di prodotto

• Quali sono le caratteristiche base del prodotto/servizio?

• Quali sono gli aspetti migliorativi del prodotto (o gli elementi aggiuntivi di servizio)?

• Quali sono gli aspetti di unicità del prodotto/servizio (ulteriori elementi che creano ulteriore valore
per il consumatore)?

Politica distributiva

• Come aumentare la penetrazione commerciale sul mercato?

• Come rafforzare l’azione della rete vendita?

• Distribuire direttamente il prodotto A e cedere la distribuzione del prodotto B a terzi?

Politica comunicativa

• Come “spingere” il prodotto verso il cliente?

• Quali azioni di promozione adottare (programmi di fidelizzazione, …)?

• Come veicolare correttamente l’immagine e la valenza del prodotto?

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Figura 2: Esempio di marketing mix nel settore del fitness

Il piano di marketing

Il piano di marketing deve definire:

• Leve competitive: prezzo, qualità, convenienza, ecc.

• Modalità di comunicazione: pubblicità, passa parola, ecc.

• Modalità di relazione con i consumatori: telemarketing, referenze, ...

• Strategie competitive: leader, innovatore, seguace, imitatore

• Previsione scenari di mercato nel prossimo futuro

• Maggiori pericoli e opportunità nel mercato attuale

• Sviluppo del mercato

• Previsione cambiamenti nell’approccio futuro

Più precisamente, il contenuto del Marketing Plan può essere così schematizzato:

• Sommario esecutivo

• Situazione di mercato attuale

• Opportunità emergenti e loro analisi

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• Obiettivi

• Strategia di marketing

• Programmi e azioni previste

• Stime numeriche

• Controlli del piano

Una volta redatto, il piano deve essere implementato. L’implementazione è un processo che si
articola nelle seguenti fasi:

Fase 1: Organizzazione

• Quale struttura organizzativo meglio supporto il processo di marketing?

• Raggruppamento delle attività di marketing in varie unità organizzative

• Allocazione delle risorse tra le unità organizzative

Fase 2: Leadership & Interazione

• Comunicazione del processo di sport marketing all’interno e all’esterno dell’organizzazione

• Divulgare e condividere internamente il piano di marketing

Fase 3: Acquisizione e allocazione delle risorse

• Risorse umane, finanziarie e tecnologiche

Fase 4: Coordinamento e tempistica della attività

• Organizzare il piano di marketing plan e stabilire la tempistica

• Ottimizzare i tempi e garantire la sufficiente flessibilità nel rispetto delle scadenze previste

Fase 5: Information Management

• Domanda dei consumatori

• Fornitori

• Canali di distribuzione

• Attività dei concorrenti

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Infine, per essere realmente efficace, il piano deve prevedere dei risultati che devono essere
sottoposti a un periodico controllo (cfr. Figura 3.).

Figura 3: Il controllo del piano di marketing

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Autunno 2024
Dispensa #18

Il processo produttivo1

Definizione e classificazione del processo produttivo

Il processo produttivo è rappresentato dall’attività di trasformazione di input (materie


prime, personale, capitali, tecnologie, energia) in prodotti o servizi. La qualità del processo
di trasformazione si ripercuote sulla qualità dell’output e, quindi, sulla reputazione
dell’azienda nel mercato in cui opera. Per tale motivo, la corretta gestione dei processi
produttivi può costituire una solida base di differenziazione nei confronti dei concorrenti.

La genesi dell’approccio all’organizzazione della produzione: il “fordismo”

Il fordismo fa riferimento alla modalità di organizzazione della produzione introdotta da


Henry Ford, fondatore dell’omonima impresa produttrice di automobili e padre della
catena di montaggio. Secondo un’interpretazione classica, il fordismo è caratterizzato da
un modello di impresa in grado di ottenere:

● un approccio scientifico al lavoro

● la standardizzazione della produzione

● l’integrazione verticale

● le economie di scala

● il controllo totale delle dinamiche del mercato e della produzione

● la creazione di un mercato dei consumatori

1
La stesura del presente paragrafo trae spunto dal capitolo 8 del manuale di A. Lipparini (a cura di),
Economia e gestione delle imprese, Bologna, Il Mulino, 2007.

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Alla base del fordismo c’è un approccio scientifico all’analisi e alla pianificazione dei
processi di lavoro proposto da Frederick Taylor e basato sui seguenti assiomi:

- il lavoro va studiato scientificamente mediante l’analisi dei tempi e dei movimenti degli
operatori al fine di individuare le tecniche ottimali per ogni attività che assicurino la
maggiore produttività;

- occorre analizzare le capacità individuali di ogni operatore per identificare quale tipo di
lavoro affidare a ognuno;

- le tecniche identificate con lo studio di tempi e metodi devono essere trasferite


mediante addestramento specifico;

- è necessario separare le attività di pianificazione, analisi e decisione, da un lato, e le


attività di esecuzione, dall’altro.

L’incontro tra le idee di Ford e quelle di Taylor produce un tipo di impresa verticalmente
integrata e di grandi dimensioni.

La genesi dell’approccio all’organizzazione della produzione: il “post-fordismo”

Il modello fordista di organizzazione della produzione viene messo in discussione nei primi
anni ’70. Tre sono stati i fattori di crisi:

● la saturazione dei mercati domestici dei beni industriali durevoli. Con l’assioma
fordista della crescita indefinita dei volumi di produzione va in crisi anche l’assunto di
base delle economie di scala, ovvero che a volumi sempre crescenti corrispondano
costi industriali e prezzi al consumo sempre decrescenti e che questo generi sempre
nuova domanda;

● lo shock petrolifero, che mette in crisi l’idea dei prezzi degli input progressivamente
decrescenti grazie all’aumento dei volumi produttivi;

● la crescente conflittualità sociale.

Alla saturazione dei mercati occidentali, che diventano mercati di sostituzione, si risponde
non più con la logica delle economie di scala, ma con i risparmi interni alla produzione,
rendendola adattabile alla fluttuazione della domanda per evitare crisi di
sovrapproduzione. Il mercato saturo richiede di accelerare i tempi di sostituzione
rendendo i beni già posseduti obsoleti. L’innovazione tecnologica in tale fase svolge un
ruolo centrale: rende possibile la realizzazione di prodotti con nuove prestazioni e la

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personalizzazione dei prodotti stessi. Si rende subito evidente il bisogno di una
produzione flessibile. Le imprese giapponesi, in particolare, si dimostravano in grado di
abbassare i costi di produzione pur realizzando molti modelli in un numero limitato di
esemplari.

Il post-fordismo viene assunto dalla letteratura di stampo socio-economico come un


paradigma – ovvero modello ideale e regolativo – di un sistema economico globale.

A partire dagli anni ’80 si afferma quello che oggi è considerato un nuovo paradigma: il
“lean manufacturing” o produzione snella. Gli impianti a esso ispirati permettono di far
giungere rapidamente sul mercato prodotti caratterizzati da un’elevata varietà e una
maggiore qualità in termini di affidabilità e durata.

La classificazione dei processi produttivi

Una prima classificazione distingue i processi tra:

● processi per il magazzino (make-to-stock) o su previsione;

● processi “su ordine” o “su commessa” (make-to-order o build-to-order)

● processi ibridi.

I processi per il magazzino definiti come “make-to-stock” sono focalizzati sulla


produzione di beni standardizzati per pronta consegna. Il magazzino è sempre fornito di
tali prodotti per assicurare al cliente la velocità del servizio di consegna. E’ indicato per
una domanda stagionale: nei periodi meno carichi si producono scorte da impiegare nei
periodi di punta.

Al contrario, nei processi “make-to-order”, l’attività di produzione è attivata solo in


risposta a un ordine del cliente. Le scorte sono conseguentemente mantenute al minimo
e il tempo di risposta è maggiore rispetto al caso precedente.

I processi “ibridi” combina elementi delle due precedenti tipologie di processo. Un bene
standard viene prodotto su previsione e tenuto in scorta in un certo punto del processo e
poi completato con le personalizzazioni richieste dal cliente al momento del ricevimento
dell’ordine.

Una seconda classificazione suddivide i processi monofase (o monostadio) dai processi


multifase (o multistadio). La fase indica l’eventuale accorpamento di più attività
elementari. Un processo multifase prevede diversi gruppi di attività collegate mediante

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flussi. Le diverse fasi possono essere direttamente collegate e, quindi, dipendenti una
dall’altra, oppure disaccoppiate. In questo caso è necessario un buffering, ovvero scorte in
attesa di essere impiegate in una fase successiva.

In funzione della regolarità o meno degli intervalli di tempo durante il processo, è


possibile individuare processi con ritmo “cadenzato” e “non cadenzato”. Il primo si
caratterizza per gli intervalli di tempo fissi durante il processo.

In funzione alla struttura della distinta base del prodotto finito si hanno poi:

● sistemi produttivi “per processo”, in cui il prodotto finito non può essere scomposto
nei componenti originari impiegati per produrlo; esempi di questo tipo corrono a beni
quali acciaio, prodotti chimico-farmaceutici, carta caratterizzati da un “ciclo
tecnologico obbligato”;

● sistemi produttivi “per parti”, comprendenti sia la fase di fabbricazione sia quella di
montaggio. Ci si riferisce, in questo caso, alla produzione di beni quali automobili,
calzature, elettrodomestici, che si caratterizzano per cicli con numerose varianti
definiti con il termine “ciclo tecnologico non obbligato”.

Il confronto tra processi

Per un’impresa, la scelta del processo produttivo da utilizzare è una decisione strategica.
Per effettuare tale scelta, partendo da determinati obiettivi, occorre conoscere i caratteri
distintivi dei diversi processi. Se ne possono identificare almeno quattro tipologie
fondamentali:

● “job shop”, detto anche “laboratorio” o “per reparti“ e utilizzato nella produzione su
commessa. Rientrano in questa tipologia le produzioni artigianali, la costruzione di
prototipi o i servizi di riparazione;

● produzione “a lotti”, con macchine organizzate in funzione dell’omogeneità dei


prodotti lavorati e in genere senza flussi tra reparti o celle di fabbricazione. Rientrano
in questa categoria le produzioni del settore tessile-abbigliamento e del
mobile-arredo;

● produzione “in linea”, caratterizzata da macchinari disposti in sequenza a seconda


delle specificità del ciclo tecnologico di realizzazione dei prodotti. Si possono avere
linee “spezzate” o “propriamente dette”. Nel primo caso rientra, per esempio, la
produzione di macchinario pesante; nel secondo, la produzione di automobili;

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● produzione “a flusso continuo” o “di processo”, basata su cicli tecnologici obbligati.
Sono esempi di impianti organizzati secondo questa tipologia le acciaierie, gli
zuccherifici, le cartiere, gli stabilimenti petrolchimici, le fabbriche di birra.

E’ utile rappresentare le principali differenze tra diversi processi produttivi con la “matrice
prodotto-processo”2 rappresentata di seguito dove sugli assi vengono riportati la varietà
del mix di prodotto e la tipologia del processo produttivo.

Il mix di prodotto evolve da produzioni uniche su commessa, altamente personalizzate, a


produzioni realizzate in grandi volumi, standardizzate. Tra i due estremi si collocano la
produzione, in limitati volumi, di molti modelli oppure la produzione, in alti volumi, di
alcuni modelli principali.

Relativamente ai tipi di processo, invece, e con riferimento al flusso, i due estremi sono
rappresentati dal flusso frammentario e dal flusso continuo automatizzato.

Tra questi si collocano una tipologia di flusso discontinuo con una linea tipo e il flusso
condizionato dai ritmi della manodopera e delle linee di produzione.

Fig. 18.1 La matrice prodotto-processo

2
R.H. Hayes e S.C. Wheelwright, Link Manufactoring Process and Product Life Cycles, in “Harvard
Business Review”, gennaio-febbraio, 1979, pp. 133-140.

Dispensa 18 – Gestione Aziendale


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Nella parte inferiore della matrice vengono riportati alcuni obiettivi critici per il
management relativamente alla scelta dei prodotti. A seconda delle diverse situazioni
assumeranno maggiore rilevanza le prestazioni, la personalizzazione del prodotto e la
puntualità delle consegne, il prezzo, la qualità della produzione. I responsabili di
produzione dovranno decidere su quali obiettivi critici focalizzare l’attenzione
coerentemente con i vincoli imposti dalla strategia dell’impresa.

Nella parte destra sono riportati alcuni obiettivi critici relativamente alla scelta dei
processi. A un estremo ci sono le operazioni di scheduling, l’affidabilità delle consegne e la
capacità di far fronte alle strozzature nella produzione. In corrispondenza del flusso
continuo automatizzato, invece, troviamo le decisioni di investimento in nuova capacità
produttiva e le scelte di integrazione verticale, gestione dei materiali e delle nuove
tecnologie.

Tra i due estremi, fattori critici risultano essere la motivazione delle maestranze, il
bilanciamento delle capacità produttive nei diversi segmenti del processo, la flessibilità e
l’elasticità dei diversi impianti.

Sono da considerarsi fisiologiche le realtà produttive che si collocano lungo la diagonale


della matrice, definendo questa il luogo dei punti in cui è ottimale la combinazione tra
varietà di prodotto e modelli di processo produttivo.

La matrice prodotto-processo è un framework statico entro il quale collocare le tipologie


di processo produttivo.

Tuttavia, le operations hanno continuamente a che fare con il cambiamento o con


potenziali cambiamenti ed è, quindi, naturale che le imprese si spostino all’interno della
matrice nella ricerca di una maggiore efficienza.

Le imprese che si collocano sotto la diagonale, utilizzano il marketing per promuovere le


vendite e sostenere processi a maggiore rigidità. La presenza persistente in quest’area
denota una strategia in cui è esplicita una maggiore propensione al rischio.

Le imprese che si collocano al di sopra della diagonale esercitano pressioni sulla


produzione per diminuire i costi. Una presenza di lunga durata in quest’area denota una
strategia conservativa: si sceglie di perdere profitti potenziali piuttosto che effettuare
investimenti su innovazioni di processo e tecnologia di produzione.

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Autunno 2024
Dispensa #20

Gli approvvigionamenti1

Le attività di approvvigionamento

L’analisi delle attività di approvvigionamento può essere svolta ripercorrendo il processo


di acquisto (illustrato nella fig. 20.1) all’interno del quale è possibile distinguere le
decisioni di sourcing, che fissano le caratteristiche dei materiali da acquistare, i fornitori
cui rivolgersi e le clausole contrattuali, dalle decisioni di supply che costituiscono le
attività prevalentemente operative per ottenere il rifornimento.
Fig. 20.1: Il processo di acquisto2

1
La stesura del presente paragrafo trae spunto dal capitolo 9 del manuale di A. Lipparini (a cura di),
Economia e gestione delle imprese, Bologna, Il Mulino, 2007.
2
Adattato da A.J. Van Weele, Purchasing and Supply Chain Management: Analysis, Planning and
Practice, IV ed., London, Thomson International, 2005.

Dispensa 20 – Gestione Aziendale


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Le fasi del processo di acquisto sono:

● la manifestazione del bisogno: l’esigenza di un rifornimento può emergere nell’ambito


di un ciclo programmato oppure può essere l’espressione di un bisogno specifico che si
manifesta con caratteristiche particolari e diverse rispetto agli acquisti fatti in
passato;

● la definizione delle specifiche: quando l’acquisto viene effettuato per la prima volta, è
necessario fissare le caratteristiche tecnico-merceologiche del bene o del servizio da
acquistare e i quantitativi di riferimento su cui si prevede dovrà assestarsi la fornitura,
gli aspetti logistici del servizio che dovrà essere garantito, i vincoli ambientali e legali
da rispettare, il prezzo di riferimento cui tendere. Solo dopo aver costruito un quadro
di riferimento abbastanza esaustivo si potrà avviare la ricerca del fornitore;

● la ricerca e la selezione: se tra i fornitori attivi non sono presenti imprese in grado di
rispondere alle nuove esigenze è necessario avviare una ricerca di un nuovo supplire.
Dopo aver individuato nuovi potenziali fornitori, si procede alla formulazione e all’invio
delle richiesta di offerte. Il processo continua con l’analisi delle offerte ricevute per
individuare l’interlocutore o il gruppo di interlocutori con cui è preferibile instaurare la
relazione. La decisione di rivolgersi ad uno o più fornitori è un momento fondamentale
della definizione delle politiche di approvvigionamento. Tra i vantaggi conseguibili
rivolgendosi a più fornitori vi è, per esempio, l’opportunità di attivare forme di
competizione che consentono di ottenere migliori condizioni di acquisto, la possibilità
di sostituire più facilmente un fornitore, la riduzione dei rischi di mancata consegna, la
maggior elasticità e flessibilità, l’attenuazione della dipendenza dall’esterno. Al
contrario, i vantaggi di operare con un unico fornitore possono essere, per esempio, la
possibilità di realizzare maggiori economie di scala, di ottenere un impegno del
fornitore, di aumentare la solidità dei rapporti e la durata delle relazioni, sviluppando
processi di apprendimento che migliorano efficacia ed efficienza;

● la negoziazione: l’attività di negoziazione ha per l’oggetto la definizione delle


condizioni contrattuali che regoleranno la relazione e si chiude con l’accordo fra le
parti. Le condizioni contrattuali definiscono i vincoli riguardo la definizione del prezzo,
degli sconti e delle penali oltre che la presenza e la periodicità delle revisioni del prezzo
stesso. Una seconda area di negoziazione è rappresentata dagli elementi collegati alla
qualità. Una terza area riguarda gli aspetti di programmazione e logistica come la data

Dispensa 20 – Gestione Aziendale


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di inizio consegna, i lead time richiesti, la frequenza delle consegne, l’entità dei lotti
minimi, gli imballaggi, i trasporti. Per gli acquisti più complessi, in cui sono previsti
anche contributi progettuali del fornitore, nell’ambito della negoziazione assume
rilevanza fondamentale un’ulteriore area relativa alle modalità di sviluppo,
implementazione e trasferimento della tecnologia;

● l’ordine: definiti gli elementi del contratto viene emesso l’ordine che contiene le
condizioni contrattuali. Il contenuto e il grado di formalizzazione dell’ordine dipendono
dall’oggetto della transazione e dalle norme vigenti nell’ordinamento giuridico;

● la spedizione: l’esigenza di assicurarsi la disponibilità dei materiali nel momento in cui


è previsto il loro utilizzo può richiedere interventi per assicurarsi che le date di
consegna vengano onorate. A questo scopo si possono sviluppare iniziative per
controllare lo stato di avanzamento dell’esecuzione dell’ordine, sia presso i reparti del
fornitore che durante il processo di consegna;

● la valutazione: tale attività consiste nella valutazione del rapporto di fornitura che
dovrebbe essere fatta con riferimento alle capacità operative dimostrate dal fornitore,
ai fattori di ordine economico-finanziario, alle possibilità di sviluppo della relazione.
Ognuno di questi gruppi di elementi assume diversa rilevanza a seconda del tipo di
acquisto. Le capacità operative sono il modo con cui il fornitore riesce a soddisfare le
esigenze dell’impresa dal punto di vista qualitativo e di puntualità delle consegne.
Passando ai fattori di ordine economico-finanziario il giudizio circa la congruità dei
prezzi quotati dal fornitore rappresenta uno dei momenti più delicati dell’attività di
approvvigionamento; dal punto di vista finanziario la valutazione dovrebbe appurare la
capacità del fornitore di costituire una fonte di finanziamento alternativa e il costo di
tale finanziamento. Le possibilità di sviluppo della relazione di fornitura devono essere
valutate quando l’impresa può correre il rischio di operare con fonti di rifornimento che
non riescono a coprire il fabbisogno quantitativo e non danno sufficienti garanzie di
sviluppo;

● le azioni correttive: dalla valutazione del rapporto di fornitura,emergono le azioni da


avviare per realizzare una coerenza ad un allineamento tra gli obiettivi che si vogliono
conseguire con il ricorso alle fonti esterne e le loro caratteristiche presenti e
prospettiche. Le principali aree di intervento sono l’area tecnico-qualitativa e quella
organizzativo-informativa. Sul primo fronte, gli interventi più significativi sono

Dispensa 20 – Gestione Aziendale


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costituiti dal trasferimento di conoscenze tecniche e dalle azioni di supporto per il
miglioramento dei processi produttivi e la messa a punto di sistemi di controllo e
certificazione della qualità. Sul secondo fronte, si assiste ad interventi tesi a facilitare
l’interazione e semplificare le attività di programmazione e controllo dei flussi di
materiale.

Dopo aver ricostruito il processo di acquisto, è più facilmente comprensibile il


contributo alla competitività dell’impresa e alla creazione del valore legato alla
corretta interpretazione della funzione di approvvigionamento.

Le categorie di acquisto

Ricostruendo le macro-categorie in base a un criterio merceologico-funzionale è possibile


individuare le seguenti categorie di acquisto:

● Materie prime: sono materiali che non hanno subito ancora alcuna trasformazione e
costituiscono il punto di partenza della produzione.

● Semilavorati e prodotti di fase: sono già stati sottoposti ad una o più trasformazioni
ed entreranno a far parte integrante del prodotto finale dopo aver subito ulteriori
trasformazioni.

● Componenti: non devono più subire alcun processo di trasformazione e sono destinati
ad essere assemblati ad altri con i quali interagiscono in modo funzionale per costruire
il prodotto finale.

● Prodotti finiti: hanno una loro identità funzionale e non devono più subire
trasformazioni significative.

● Materiali ausiliari: vengono utilizzati e consumati durante il processo di


trasformazione, ma non entrano a far parte del prodotto finale (ad esempio i
lubrificanti, il gas).

● Materiali per la manutenzione, le riparazioni e per l’operatività d’impresa (MRO): sono


beni di consumo, essenziali per il funzionamento dell’impresa, che raramente entrano
a far parte dei beni e servizi commercializzati e per questo chiamati “indiretti”.

● Servizi: sono attività svolte da terzi in base a contratti di acquisto (ad esempio i servizi
di pulizia, di portierato, di elaborazione dati, di logistica)

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Le caratteristiche del prodotto e gli approcci al mercato di rifornimento

A parità di altre condizioni, l’eterogeneità degli acquisti può essere affrontata fissando
linee-guida che indirizzino verso modalità diverse a seconda delle caratteristiche principali
del bene da acquistare.

A questo scopo è utile distinguere gli acquisti in base al loro valore di acquisto e in base
alla differenza tra “commodities” e “specialities”.

Mentre le commodities sono beni omogenei le cui caratteristiche sono standardizzabili


sino a ritenere intercambiabili le possibili fonti rifornimento (per esempio petrolio,
elettricità, soia, mais), le specialities sono invece prodotti differenziati la cui fonte di
rifornimento difficilmente può essere cambiata (e.g. il cruscotto di un’automobile o un
lubrificante speciale).

Utilizzando le variabili come assi di una matrice, illustrata nella fig. 20.2, si identificano
quattro tipologie di acquisto a ognuna delle quali è associato uno specifico approccio.

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Fig. 20.2: Gli approcci al mercato di rifornimento3

A fronte di acquisti a basso valore è opportuno evitare metodi che generino impieghi
consistenti di risorse o alti costi di gestione e amministrativi. L’approccio consigliato è di
tipo tradizionale per le specialities e di acquisto tramite e-purchaising per le commodities.
Per e-purchaising ci si riferisce ad acquisti effettuati tramite web su mercati virtuali
(e-market places) dove è possibile incontrare un numero di fornitori molto elevato.

3
M. Boldrini, Il make or buy strategico si fa nell’ufficio acquisti, in GEA (a cura di), Il Supply chain
management dalla teoria alla pratica, Torino, ISEDI, 2005, p. 134.

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Per acquisti ad alto valore l’impresa è generalmente alla ricerca di forme di collaborazione
di lungo periodo in grado di produrre vantaggi superiori ai costi di attuazione.
Tipicamente, per le specialities la linea guida è la ricerca di forma di cooperazione nelle
attività progettuali (co-design), mentre per le commodities l’obiettivo è quello di
stabilizzare le condizioni di acquisto attraverso ad esempio le alleanze.

Il portafoglio degli acquisti e le politiche di approvvigionamento

La differenziazione esistente tra i diversi beni e servizi acquistati è un dato essenziale per
definire le politiche di approvvigionamento. Gli acquisti possono essere raggruppati in un
portafoglio (cfr. Figura 20.3), composto da quattro quadranti che riflettono il diverso
grado di importanza per l’impresa acquirente e la diversa rischiosità dei mercati in cui
quest’ultima si trova ad operare.
Fig. 20.3: Il portafoglio acquisti4

Gli indicatori utilizzati possono essere il rapporto tra il costo di acquisto del particolare e il
costo complessivo del prodotto in cui viene impiegato, oppure il contributo del bene
acquistato alla qualità del prodotto finale o alla sua differenziazione rispetto all’offerta
dei concorrenti.

Il grado di rischiosità può essere misurata in reazione alle difficoltà che l’impresa incontra
sul mercato di fornitura.

4
P. Kraljic, Purchasing Must Become Supply Management, in “Harvard Business Review”, 5, 1983,pp.
109-117.

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Le implicazioni che discendono dall’articolazione del portafoglio degli acquisti sono
profonde in quanto, cambiando quadrante, mutano gli obiettivi e i compiti principali della
funzione approvvigionamenti.

In ottica strategica, l’obiettivo da conseguire è la disposizione del bene nel lungo periodo.
Per particolari che costituiscono “colli di bottiglia”, l’obiettivo è quello di garantire
l’alimentazione del flusso. Di fronte agli acquisti che presentano un effetto “leva” (quelli
che incidono significativamente sulla redditività e per i quali una variazione unitaria del
costo si riflette pesantemente sul profitto) l’obiettivo è quello di tenere sotto controllo le
variabili economiche agendo sia sui prezzi sia sulle giacenze dei materiali. Infine, per gli
acquisti “non critici” sono sufficienti i criteri di gestione tradizionali e l’obiettivo è quello
dell’efficienza.

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #21

La gestione delle risorse umane

Il ruolo strategico delle risorse umane

Le risorse umane all’interno dell’impresa ricoprono un ruolo primario in quanto la


combinazione di risorse, la combinazione di tecniche, la produzione di beni e servizi
dipende prevalentemente dalle persone. Solo coinvolgendo ogni singolo collaboratore
dell’azienda, sono possibili miglioramenti di produttività, qualità del servizio e quindi
soddisfazione del cliente, tutti fattori fondamentali della buona performance aziendale.

I dipendenti dell’impresa devono essere messi a conoscenza della strategia che loro stessi
sono chiamati a mettere in atto. E’ perciò fondamentale comunicare ai dipendenti di tutti
i livelli quali sono le esigenze dei clienti, quali sono gli obiettivi da raggiungere e le risorse
a disposizione, come la strategia deve essere portata a compimento e con quali scadenze,
cosa si richiede a ogni collaboratore al fine di realizzare la strategia. Ciò fa sì che tutti si
sentano coinvolti e diano il loro prezioso apporto di suggerimenti (apporto che deve
chiaramente essere gestito in modo sistematico).

Il successo di un’impresa nell’ottenere i risultati desiderati è in relazione diretta rispetto al


comportamento della sua organizzazione, di cui fanno parte principalmente persone che,
al contrario della tecnologia, possono anche porre resistenze al cambiamento e
all’innovazione per molteplici ragioni soprattutto di ordine psicologico (pigrizia, paura di
perdere parte del loro potere, maggiore trasparenza in relazione alle proprie eventuali
responsabilità).

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In tale ottica, il rapporto tra il management e i lavoratori deve essere permeato da uno
spirito collaborativo teso al miglioramento delle performance aziendale e delle condizioni
di lavoro.

Migliori condizioni di lavoro e crescita dell’impresa sono due realtà inesorabilmente


collegate. E’ noto che lavoratori affezionati all’impresa sono più disposti ad affrontare
sacrifici rispetto ai dipendenti di imprese in cui l’ambiente di lavoro è critico. Lo spirito
collaborativo è favorito quando l’impresa introduce sistemi di incentivazione che
premiano il raggiungimento di determinati obiettivi.

Percorso storico

Gli studiosi di management iniziano ad occuparsi di risorse umane dopo la seconda


rivoluzione industriale, quando il problema organizzativo assume rilevanza, dal punto di
vista economico, anche nell’ambito della produzione e non solo sul mercato. In altre
parole, fino all’inizio del secolo scorso, i principali problemi organizzativi riguardavano il
funzionamento del sistema economico, in cui una prevalenza di piccoli operatori
specializzati venivano messi in collegamento dai mercanti grazie alla capacità di
combinare domanda e offerta mediante il prezzo. I problemi principali in un contesto di
questo genere erano connessi principalmente con i costi relativi ai trasporti e alle
informazioni sui beni scambiati. A seguito dell’industrializzazione, invece, si assiste a una
rapida crescita dimensionale di alcuni operatori, con il conseguente spostamento del
focus su aspetti riguardanti la divisione del lavoro e il coordinamento delle attività.
Nel corso degli anni si sono sviluppati diversi orientamenti al tema dell’organizzazione
delle risorse umane; alcuni approcci, soprattutto legati al modello tayloristico e alla logica
meccanicistica del funzionamento organizzativo, sottolineano l’importanza dei fattori
cosiddetti “hard” dell’organizzazione, vale a dire le variabili strutturali e socio-tecniche,
mentre altri autori (a partire dagli anni ’80) mettono in evidenza un’ottica sistemica del
funzionamento organizzativo dando importanza anche all’area “soft”, vale a dire la
dimensione sociale e il fattore umano come risorsa strategica.

Il Taylorismo

L’applicazione delle macchine alla produzione pone in risalto il problema di come


suddividere i processi in fasi e impiegare la manodopera in maniera efficiente. L’idea che
emerge è semplice ed efficace: il frazionamento delle attività in compiti elementari
favorisce la massimizzazione della produttività individuale. Il contributo più celebre in

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questo ambito è quello elaborato da Taylor che propone un metodo definito
“organizzazione scientifica del lavoro”. Seguendo tale logica l’organizzazione dell’attività
produttiva si basa prevalentemente sulla standardizzazione dei processi produttivi e sulla
supervisione diretta (o gerarchica).

Il “funzionalismo” e il “contingentismo”

Dagli anni ’40 sino agli anni ’70 prende vita l’idea che i problemi organizzativi debbano
essere affrontati tenendo presenti sia le variabili tecniche sia le variabili individuali e
sociali. A tale riguardo, vi sono numerosi contributi scientifici che vengono classificati
nelle correnti del “funzionalismo” e del “contingentismo”.

Secondo il pensiero “funzionalista”, l’organizzazione può essere vista come un sistema


sociale orientato al raggiungimento di obiettivi1, la cui principale qualità è l’efficienza
tecnica. L’autorità coincide con la gerarchia ed è legata all’ufficio e non alla persona. Alle
persone viene richiesto di adattarsi alle posizioni che esistono e prescindono da loro; la
variabile umana viene interpretata come fonte di squilibrio e di incertezza.

Il pensiero “contingentista”, sviluppatosi agli inizi degli anni ’60, si caratterizza per un
atteggiamento meno deterministico e per la grande attenzione riposta al rapporto tra
organizzazione e ambiente. L’innovazione principale risiede nel ritenere l’organizzazione
non più come un sistema chiuso ma aperto, soggetto quindi all’influenza di “contingenze”
esterne (i.e. l’evoluzione tecnologica, il contesto sociale, l’incertezza ambientale).

La leadership e il comando in azienda

Il leader è colui che sa guidare un gruppo di persone; è colui che conduce la squadra al
raggiungimento degli obiettivi.

E’ possibile distinguere tre periodi storici che hanno accompagnato l’evoluzione del ruolo
del capo, sia dal punto di vista della “filosofia” organizzativa sia da quello della leadership.

1° fase. PERIODO MECCANICISTICO (anni 50-60). Lo stile di direzione aziendale aveva il


compito di colmare le lacune psico-sociologiche dell’organizzazione del lavoro tayloristica,
per cui i compiti e le responsabilità prioritarie di un capo erano le seguenti: addestrare in
modo adeguato; tenere conto dei problemi particolari dei dipendenti; trattare i dipendenti

1
R.K. Merton, Social Theory and Social Structure, New York, Free Press, 1949; trad. it. Teoria e struttura
sociale, Bologna, Il Mulino, 1959;

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con “umanità”; essere obiettivi; essere fermi e guidare con decisione l’azienda; garantire
sicurezza e ambiente vivibile; decidere con obiettività;

Si sviluppa in questa fase uno stile di leadership che si colloca tra il “paternalista” e il
direttivo, basato sostanzialmente sulle competenze tecniche, sull’esempio e sulle
attenzioni ai bisogni primari dell’individuo. E’ una gestione caratterizzata da un
orientamento all’efficienza e al controllo sociale nell’ambiente di lavoro, da cui tuttavia
rimane esclusa ogni dialettica; nei casi migliori si può parlare di una cultura organizzativa
che trasmette disciplina morale e organizzativa. Il capo ha un profilo sostanzialmente
fondato sulla gerarchia e sull’anzianità.

2° fase. Con gli anni ’70 le organizzazioni sposano l’approccio sistemico, nel quale l’area
soft diventa importante quanto l’area hard. Questa trasformazione incide notevolmente
sull’evoluzione del ruolo di capo, che è chiamato a presidiare la stretta connessione tra
tutte le variabili del funzionamento aziendale.

Il gestore di risorse umane rappresenta uno snodo fondamentale di diffusione della nuova
cultura organizzativa ed è chiamato a uno stile di leadership che orienti in tal senso i
comportamenti dei collaboratori. Assumono ora valore le abilità manageriali di:

● delega, necessaria per promuovere lo sviluppo professionale delle risorse umane,


stimolare lo spirito di iniziativa, il coinvolgimento e la responsabilizzazione;

● motivazione, utile per sollecitare senso di appartenenza e fidelizzazione del


collaboratore;

● supervisione e controllo, necessaria per il raggiungimento di obiettivi sfidanti, concreti


e verificabili;

● valutazione dei risultati e delle prestazioni, utile per una gestione il più possibile
meritocratica, equa ed obiettiva.

E’ in questa fase che avviene la trasformazione del responsabile da “dirigente-capo” in


“manager”.

Secondo la logica del management i meccanismi di controllo mettono a confronto il


sistema dei comportamenti dei collaboratori con il piano aziendale ed entrano in funzione
quando avviene una deviazione, al fine di correggere e ri-orientare verso obiettivi di
qualità.

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3° fase. A partire dalla seconda metà degli anni ’80, inizia un ulteriore cambiamento nella
filosofia di gestione delle risorse umane delle aziende: il ruolo del capo passa da manager
a “leader”.

Il framework concettuale ripercorre in parte gli aspetti della seconda fase. Pone
attenzione ai risultati attraverso l’ottimizzazione delle capacità e delle attitudini dei
collaboratori, non abbandonando quindi la logica manageriale, ma al contrario
aggiungendo grande enfasi ai seguenti aspetti:

● aspetto relazionale: il collaboratore non rappresenta solo un ruolo professionale ma


anche la ricchezza della persona, delle sue emozioni, il suo capitale intellettuale, la sua
dimensione relazionale; il “capo”, quindi, è protagonista nella ricerca della qualità del
rapporto interpersonale, attraverso la capacità di comunicazione, di ascolto, di
valorizzazione dei suggerimenti;

● aspetto sociale: il “capo” è il sensore del clima del gruppo, è colui che costruisce la
squadra, promuove iniziative di “knowledge management” (diffusione della
conoscenza attraverso meccanismi operativi come le riunioni periodiche frequenti,
intranet o simili, gruppi di miglioramento, ...);

● leadership empowering: si parla di leadership empowering quando il leader stimola,


provoca, infonde energia e motiva i propri collaboratori, consentendo loro di lavorare al
massimo delle proprie possibilità, facendoli sentire capaci, legittimando iniziative
libere e autonome, rafforzando il sentimento di autoefficacia dei lavoratori e di
controllo del proprio lavoro. L’obiettivo più significativo dell’empowerment è
l’emancipazione dei lavoratori, che può essere realizzata con un diverso e profondo
modo di pensare al ruolo dell’impresa e di impostare le relazioni tra le persone.

E’ in questa fase che il sistema di valutazione delle prestazioni diventa sempre più uno
strumento fondamentale di gestione delle risorse umane.

Oggi, la maggiore criticità che la gestione delle risorse umane deve affrontare è legata al
cambiamento: anche le organizzazioni complesse non possono esimersi da una logica di
“changing”, ovvero di trasformazione continua che rappresenta l’evoluzione stessa
dell’organizzazione.

La leadership deve quindi occuparsi della promozione e della realizzazione del


cambiamento; ha il compito di attuare il legame di complementarietà tra gestione del

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presente e guida nel futuro. E’ affidata ai capi la responsabilità di costruire individui capaci
di lavorare nel cambiamento che passa attraverso l’interpretazione “etica” del loro
compito: apertura, credibilità, lealtà, obiettività.

Gli incentivi

L’impresa di successo vince la partita competitiva con il gioco di squadra tra persone con
elevate competenze professionali. Perciò l’impresa deve motivare e supportare i propri
addetti perché questi riescano ad adeguarsi alle variazioni tecnologiche e di mercato; in
tale contesto, l’impresa non deve dimenticarsi della risorsa uomo motivandola verso il
raggiungimento di migliori prestazioni.

A questo proposito, è importante che l’impresa, nel gestire gli incentivi, non pensi solo
allo scopo generico di stimolare il lavoratore a un maggiore impegno, bensì a quello
cruciale di favorire l’ottenimento delle prestazioni chiave per il miglioramento della
posizione dell’impresa nell’arena competitiva.

Vale la pena sottolineare che gli incentivi non devono necessariamente essere solo
economici: un’ azione come quella di rendere pubblica, all’interno dell’azienda, la
performance di ogni reparto, può promuovere un sano spirito agonistico (non
antagonistico!) che spinga al miglioramento anche i reparti all’inizio più riluttanti verso il
cambiamento organizzativo teso al miglioramento della performance. Quello che è certo,
è che il sistema di incentivi deve essere tale da promuovere il lavoro di squadra e deve
essere attentamente monitorato per evitare che diventi disincentivante. Perché
l’incentivo svolga la sua azione, è bene che sia legato a performance chiare in modo da
favorire il reale coinvolgimento e la responsabilizzazione dei dipendenti.

L’impresa può scegliere tra varie categorie fondamentali di incentivi monetari:

• il cottimo: è un sistema di incentivazione molto utilizzato (ma non molto gradito ai


lavoratori e alle loro rappresentanze), che si basa su indicatori quantitativi di un volume
relativo alla produzione di un oggetto. Ciò che viene premiato è la velocità di colui che
esegue il lavoro; è un tipo di incentivo che può essere utilizzato per attività piuttosto
individuali e poco correlate con quelle di altri soggetti. Altresì, è un tipo di incentivo che
mal si presta a essere utilizzato in contesti aziendali permeati da una filosofia di gestione
legata alla qualità;

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• il gain-sharing: con questo incentivo, la parte di retribuzione variabile del dipendente è
correlata alla diminuzione dei costi ottenuta dai suggerimenti degli addetti. Tale sistema
premia la capacità degli addetti di identificarsi con la propria azienda collaborando
fattivamente;

• il profit-sharing: questo tipo di incentivo prende come parametro di riferimento l’utile


dell’azienda che, quando supera un determinato importo (predefinito), viene in parte re-
distribuito tra i dipendenti. Anche se l’effetto motivazionale del profit-sharing è minore
rispetto a quello del gain-sharing, bisogna riconoscere a questo tipo di incentivo
particolari vantaggi che vanno dallo stimolo alla collettività dello sforzo al miglioramento
della comunicazione interna circa lo stato di salute dell’impresa;

• la distribuzione di azioni ai dipendenti: questo tipo di incentivo, essendo tra l’altro


spesso legato all’anzianità di servizio anziché alla qualità del lavoro svolto, serve più che
altro a stimolare il senso di appartenenza all’azienda.

Indipendentemente dal tipo di incentivo scelto, il sistema di incentivazione deve tenere


conto dei seguenti elementi:

● gli incentivi devono essere coerenti con la strategia di business perché orientati a
migliorare la competitività dell’impresa;

● il sistema di incentivi deve promuovere comportamenti innovativi e tesi


all’apprendimento e alla collaborazione delle varie funzioni;

● l’incentivo deve essere legato a obiettivi sui quali l’addetto o il gruppo di addetti può
ragionevolmente influire;

● il meccanismo dell’incentivo, ossia la formula che lega gli obiettivi al premio, deve
essere sufficientemente semplice da essere comprensibile a tutti gli addetti;

● gli incentivi devono essere legati a obiettivi ragionevolmente raggiungibili (per questo
è utile basarsi su dati storici eventualmente manipolati in relazione alle variate
condizioni del mercato e della concorrenza);

● è più stimolante un incentivo di tipo graduale piuttosto che uno del tipo “tutto o
niente”;quando il sistema di incentivazione viene introdotto è bene anche stimolarne
l’accettazione, stabilendo degli obiettivi quasi certamente raggiungibili. Il sistema di
incentivazione deve diventare a tutti gli effetti uno strumento di management

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strategico, diretto a stimolare le idee non solo dei livelli alti dell’azienda, ma di tutti i
collaboratori.

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GESTIONE AZIENDALE
Autunno 2024
Dispensa #22

La Gestione Economica dell’Impresa

I principi della gestione economica, finanziaria e monetaria dell’impresa

L’impresa è quella unità del sistema economico la cui principale funzione consiste nel
produrre beni o servizi attraverso la combinazione organizzata dei fattori di produzione.
L’attività economica viene realizzata attraverso un insieme di forze (capitale umano) e di
fattori produttivi (mezzi materiali e conoscenze) organizzati e coordinati.

L’impresa svolge una continua attività di procacciamento di mezzi monetari, provenienti


da varie fonti, e di investimento degli stessi mezzi per attuare la produzione economica
aziendale. La gestione di impresa si compone così di un coordinato susseguirsi e
intrecciarsi di flussi, in entrata e in uscita, di beni e servizi da un lato e di valori monetari e
creditizi dall’altro, che si derivano a vicenda con movimenti contrapposti. L’impresa si
presenta quindi come un sistema organizzato di fonti e di impieghi di mezzi monetari.

La gestione di impresa può essere distinta in:

● GESTIONE ECONOMICA

● GESTIONE FINANZIARIA

● GESTIONE MONETARIA

È importante sottolineare che la distinzione fatta non vuole violare il principio di


unitarietà aziendale. In effetti, non esistono tre gestioni diverse, ma soltanto tre punti di
vista da cui osservare l’attività di impresa.

Nella Figura 1 sono rappresentati gli elementi caratteristici e gli obiettivi dei tre aspetti
della gestione aziendale.

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La gestione di impresa si compone di diverse azioni (economiche, finanziarie e monetarie)
che si intrecciano e si manifestano con differente periodicità.

Il processo ha inizio quando una sola persona (aziende individuali) o un gruppo di persone
(aziende collettive) si associa per intraprendere un’attività imprenditoriale. Per costituire il
capitale iniziale, ogni socio versa una determinata somma di denaro oppure cede dei beni
(conferimenti) o, ancora, si ottengono mezzi finanziari in prestito da terzi (finanziamenti).

I finanziamenti dei soci e i finanziamenti dei terzi consentono di effettuare gli


investimenti in fattori produttivi durevoli (ad es. fabbricati, impianti, attrezzature, mobili e
arredi...) e in fattori non durevoli (ad es. materie prime , semilavorati...).

Figura 1: La gestione economica, finanziaria e monetaria dell’azienda

Avviata l’attività, l’impresa può procedere alla collocazione sul mercato del bene prodotto
o del servizio offerto concedendo, eventualmente, credito agli acquirenti. Con la vendita
delle merci o dei prodotti si ottengono nuovi mezzi finanziari con i quali si possono
effettuare nuovi acquisti di fattori produttivi o rimborsare i finanziamenti ottenuti (cfr.
Figura 2).

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Figura 2: Lo schema integrale della gestione

Il ciclo finanziario della gestione

L’impresa per potere permanere come unità autosufficiente all’interno del sistema
economico deve perseguire l’equilibrio finanziario ed economico delle operazioni poste in
essere nel corso dell’esercizio della sua attività.

L’equilibrio economico riguarda il fluire dei costi e dei ricavi di gestione. Tale equilibrio
esprime la necessità che l’impresa consegua ricavi in misura tale da consentire l’integrale
copertura dei costi correlativi e, inoltre, di ottenere un margine di reddito per remunerare
adeguatamente il capitale proprio e per sostenere lo sviluppo.

L’equilibrio finanziario riguarda il fluire delle entrate e delle uscite. Le entrate provenienti
dalle diverse fonti devono assicurare la piena copertura delle uscite via via richieste, il che
presuppone un assiduo e reciproco adattamento fra provviste e impieghi di capitale.
L’equilibrio finanziario è così una condizione che va perseguita in via continuativa.

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Approfondendo l’analisi degli aspetti finanziari della gestione di impresa, si evidenzia
come essa assuma un andamento ciclico: al centro vi è la cassa, da cui provengono gli
esborsi e a cui affluiscono gli incassi. L’impresa, per realizzare la propria attività, da un
lato deve effettuare una serie di esborsi monetari e, dall’altro, attendere l’incasso dei
crediti concessi.

Il compito principale della gestione finanziaria consiste nell’amministrare i fondi


dell’impresa in modo da compensare le sfasature temporali contenute nel ciclo della
gestione stessa. In altri termini, la principale funzione della politica finanziaria consiste
nel trovare la combinazione delle fonti in grado di sostenere l’impresa sia nella gestione
ordinaria che straordinaria.

La capacità di reperire fonti per sostenere gli impieghi aziendali deve avvenire nel rispetto
dell’equilibrio finanziario.

In sintesi, i compiti della gestione finanziaria possono essere così riassunti:

● Analisi di natura economica e finanziaria delle performance aziendali

● Gestione dei flussi di cassa attraverso l’attività di pianificazione

● Gestione degli investimenti (capital budgeting)

● Gestione delle fonti di finanziamento

Il fabbisogno finanziario

Dal momento che l’impresa opera in continua interrelazione con l’ambiente esterno,
estremamente turbolento, diviene fondamentale per la gestione finanziaria determinare
il fabbisogno finanziario e le possibili leve che consentono di controllare la formazione del
fabbisogno stesso.

E’ opinione diffusa che il termine fabbisogno finanziario indichi il volume delle risorse da
richiedere ai terzi, e, in particolare modo, alle banche. Occorre sottolineare come tale
concetto non sia corretto.

Infatti, ricorrendo ai diversi contributi teorici, tra le tante definizioni offerte si preferisce
quella che indica il fabbisogno finanziario come “il volume dei mezzi finanziari che
necessitano a un’azienda per acquisire e utilizzare i fattori produttivi destinati al
compimento delle operazioni di gestione e dei processi di produzione”. Il fabbisogno

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finanziario rappresenta così l’ammontare complessivo dei mezzi finanziari che, in un dato
momento, devono restare vincolati all’azienda per lo svolgimento della gestione
economica. In questo senso il fabbisogno finanziario coincide con il totale degli impieghi o
investimenti in corso, ossia con la somma delle attività reali e finanziarie nette che
compaiono nello stato patrimoniale dell’azienda (fabbisogno totale istantaneo). È però
evidente che lo stato patrimoniale fornisce la misura assoluta del fabbisogno in quel
determinato istante, mentre il fabbisogno muta nel tempo con l’effettuazione delle
operazioni della gestione. La variazione positiva o negativa del fabbisogno finanziario
derivante dallo svolgimento della gestione prende il nome di fabbisogno differenziale.

Le esigenze di fabbisogno finanziario derivano dall’asincronia del processo produttivo,


ovvero sono correlate al naturale sfasamento temporale tra l’acquisizione dei fattori
produttivi, la loro trasformazione e il loro reintegro grazie alla vendita dei beni prodotti.

In senso monetario, i tre momenti (acquisto - trasformazione - vendita) comportano flussi


in entrata e in uscita, la cui non perfetta aderenza quanto ad ammontare e a
manifestazione temporale determina il sorgere del fabbisogno. La differenza di
ammontare è dovuta alla necessità dell’impresa di dotarsi di fattori produttivi la cui
utilizzazione è protratta nel tempo (immobilizzazioni) e di fattori il cui utilizzo è vincolato
allo svolgimento di un ciclo produttivo. La manifestazione temporale si riconnette invece
alla situazione comune di pagamento anticipato dei fattori produttivi rispetto al recupero
monetario costituito dall’incasso delle vendite. In altri termini, il fabbisogno finanziario di
un’impresa è pari agli investimenti pro tempore in essere e non ancora convertiti in
moneta.

La composizione del fabbisogno finanziario, rilevante ai fini delle modalità di copertura,


dipende dalle proporzioni che si stabiliscono tra fabbisogno durevole e fabbisogno non
durevole. Il primo comprende gli investimenti destinati a permanere stabilmente
nell’impresa (in primo luogo le immobilizzazioni); il secondo si riferisce al capitale
circolante, ossia ai fattori consumati con rapida rotazione.

La proporzione esistente tra fabbisogno durevole e variabile è correlata alle politiche di


acquisizione dei fattori produttivi, ossia alla relazione tra costi fissi e costi variabili.
L’andamento nel tempo dipende dal susseguirsi dei singoli cicli produttivi e, quindi, dalla
distribuzione dei flussi in entrata e in uscita in grado di compensarsi reciprocamente.

I fattori che determinano l’ammontare del fabbisogno finanziario sono:

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● la tipologia del processo produttivo;

● le condizioni di incasso e di pagamento, ossia la durata del ciclo monetario;

● la composizione del fabbisogno tra durevole e variabile;

● il susseguirsi e il concatenamento dei singoli cicli produttivi.

Box: I concetti chiave di natura finanziaria

✔ Il fabbisogno finanziario è il complesso di mezzi finanziari necessari per lo svolgimento


dell’attività economica dell’impresa

✔ L’autofinanziamento rappresenta una delle fonti di copertura del fabbisogno


finanziario ed è costituito dalle risorse generate dalla caratteristica gestione
aziendale. In particolare, esso è dato dalla somma tra l’utile di esercizio e le poste non
monetarie (ammortamenti + accantonamenti). L’autofinanziamento indica la capacità
dell’impresa di finanziare nuovi investimenti senza ricorrere a fonti di finanziamento
esterne

✔ La cassa assume un ruolo fondamentale nella gestione finanziaria, dato che da essa
provengono gli esborsi monetari e a essa affluiscono gli incassi.

✔ Il flusso di cassa (cash flow) è il risultato della gestione monetaria dell’impresa.

✔ Due sono le metodologie di calcolo: a) flussi di entrata e di uscita, provenienti dalla


gestione monetaria (o di tesoreria); b) flussi dei fondi, ovvero variazioni tra due esercizi
nelle fonti e negli impieghi del capitale classificato sotto l’aspetto finanziario.

Evidenziati i concetti chiave (vedi Box), diviene importante rafforzare le conoscenze di


base necessarie alla descrizione dell’attività aziendale attraverso la lettura e
l’interpretazione dei documenti contabili.

Dispensa 22 – Gestione Aziendale


Prof. Michele Modina

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